Come restare insieme per cinquant’anni e passa

Franca Di Muzio
7 min readApr 20, 2017

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(una ricetta di famiglia)

Anelli cinquantenari.

Nascere, a due anni di distanza l’uno dall’altra.

Crescere, nello stesso luogo ma uno in campagna, l’altra in città.

Farsi strada tra le mura sottili le liti e le risate delle famiglie numerose.

Studiare, con voglia. Studiare controvoglia. Fermarsi entrambi alla quinta elementare.

Essere giovani quando scoppia la seconda guerra mondiale — troppo per entrarci direttamente, abbastanza per essere oppressi dal faccione di un dittatore, dalla paura delle bombe e dagli stenti delle tessere annonarie, condividendo le rispettive case con parenti sfollati e soldati assetati di serenità.

Vivere nonostante tutto, come si vive solo da giovani: gli amori veri e immaginari, le fatiche precoci, le canzonette, i segreti, le scoperte, le vanità.

Il primo paio di pantaloni lunghi. La prima brillantina.

Il primo reggicalze. Il primo rossetto.

Con fratelli sorelle cugini e amici, essere generosi. Con loro dividere tutto quello che si può, soprattutto le piccole gioie e i grandi dolori.

Farsi da sé un paio di zoccoli con la suola di sughero. Farsi un morbido golfino di lana d’angora.

Andare in giro scalzi, calpestando zolle di terra. Indossare ispide maglie di lana di pecora.

Tra un ballo e una mietitura, arrivare alla maggiore età.

Increduli festeggiare la fine della dittatura e della guerra.

Una bella mattina, veder apparire tra i campi lo spettro di tuo fratello disperso in Germania. Nel campo di concentramento ha mangiato bucce di patate, si è salvato: ragazzo fortunato.

Una brutta mattina, ricevere ufficiale conferma di tuo fratello morto in Germania. Nel campo di concentramento si è ammalato di tifo: ragazzo sfortunato.

Votare al referendum Monarchia o Repubblica.

Assaporare la libertà, sentire il peso delle responsabilità.

Lasciare la campagna, arruolarsi, rimettere la firma e andare su al nord, per il lavoro sicuro, quello giusto per mantenere una moglie, dei figli.

Restare nella città natale, lavorare con la sorella sarta, senza contributi e senza garanzie; arriverà un marito, prima o poi.

Vedere che parenti e amici iniziano a sposarsi e a riprodursi. Fare da testimone, da madrina e da padrino. Entrare in chiesa e chiedersi Quando toccherà anche a me?

Guardarsi attorno.

Quella del nord è una brava ragazza, carina, però non mi smuove dentro niente. L’amico di mio fratello è proprio bello, però con quella faccia da furbetto e quelle mani troppo lunghe chissà che combina, al suo paese.

Lasciare con garbo la brava ragazza del nord, che tramite uno scambio di lettere tra parroci lontani si era già informata sulla tua famiglia. Moglie e buoi…

Essere lasciata dal bel furbetto, che ha messo incinta una ragazza del suo paese. Restituirgli con garbo l’anello di fidanzamento dicendogli: Questo è il mio regalo per il vostro bambino.

Tornare in licenza. Tuo fratello maggiore, nel frattempo ha sposato la sorella maggiore di lei. Ma prima di allora, nessuno di voi due ha mai pensato che forse, chissà…

Passarla a salutare, sfoggiando la divisa nuova e un vago accento del nord sul dialetto natìo.

Guardarlo con la divisa addosso, guardarlo mentre accarezza un cane, vederlo davvero per la prima volta. Se accarezza così un cane, con una donna sarà anche meglio.

Guardarla con quel vestitino a fiori e sentirsi aprire dentro, non avere bisogno di altro per farsi coraggio e chiederle Mi vuoi sposare?

Rispondergli cauta, Facciamo una prova.

Dopo otto giorni di passeggiate e un casto bacio alla villa comunale, fidanzarsi in casa davanti a una frittata di bucce di piselli.

Comprarle un anello di brillanti. Metterselo al dito la domenica, quando ci sono parenti in visita.

Passare otto mesi da fidanzati a distanza, mentre lui lavora al nord e lei si cuce il vestito da sposa.

Scambiarsi foto da teatro di posa; girarle e trovarci scritte dietro delle timide dediche amorose.

Sposarsi una bella domenica di metà settembre nella chiesa vicino alla villa comunale, e con tutti i parenti intorno diventare marito e moglie nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finché morte non vi separi.

Dionino e Lidia, novelli sposi.

Fare il viaggio di nozze a Venezia, in treno. Illudersi e deludersi.

Al ritorno trasferirsi subito al sud, appresso al lavoro di lui. Sistemarsi.

Essere una brava moglie. Essere un bravo marito.

Restare incinta, partorire una neonata prematura, vederla battezzata da un’infermiera che le dà il proprio nome prima di assegnarla al regno dei morti.

Soffrire. Pregare, piangere. Stare vicini. Nella gioia e nel dolore…

Ricominciare a lavorare, a vivere. Restare incinta un’altra volta. Nella gioia…

Sentir arrivare le doglie, lunghe, strane, strazianti. Sentirsi squarciare dal forcipe di un macellaio. Vedersi restituire un figlio cerebroleso. …e nel dolore.

Soffrire e amare. Amarlo per quasi otto anni. Le carezze che lui dava al cane, adesso sono tutte per quel suo figlio silenzioso e cagionevole, bello come un angelo.

Tornare nella propria città, sempre appresso al lavoro di lui. Mettere su insieme l’ennesima casa. Comprare elettrodomestici, contribuire al boom economico.

Fare la brava moglie con i suoi colleghi. Fare il bravo marito che ignora tutte le altre.

Litigare ma dire: stiamo discutendo. Votare al referendum sul divorzio.

Restare incinta per la terza volta e accorgersene solo al quarto mese, quando il prete venuto a benedire la casa esclama: Congratulazioni, signora!, per il lieto evento!

Quale lieto evento?

Fare le analisi e scoprire che il prete aveva visto giusto.

Dopo mesi di grandi mangiate e fame atavica, partorire una bambina di quattro chili e mezzo. Viva. Sana. Piange sonora, piange in chiave di la! La, la, la… Nella gioia…

Dopo quattro mesi, comprare un posto al cimitero per il figlio silenzioso. …e nel dolore.

Festeggiare il primo compleanno della bambina. Trasferirsi di nuovo, in un’altra città; crescerla là.

Comprarsi una saponetta di macchina, prendere la patente a quarant’anni suonati. Accompagnarla a scuola, a danza, in piscina, a pianoforte. Farle fare i compiti. Farle i vestiti. Fare famiglia.

Tingersi i capelli una volta al mese. Farsi la barba una volta al giorno. Rammendare la camicetta. Stirare la divisa.

Riservare ogni altra cura e spesa alla figlia. Fare famiglia.

Cucinare una porzione di pasta all’uovo in più, metterla nella schiscetta. Ascoltare le brutte notizie del telegiornale. Avvolgersi stretta nelle coperte, cercare di dormire sapendo che lui è al lavoro. Pregare.

Fare i turni di notte in carcere, negli anni delle rivolte e delle Brigate Rosse. Sentire il freddo invernale che ti punge sotto la divisa. Alla luce dinamica delle fotoelettriche, mangiare la pasta all’uovo nella schiscetta.

Ordinare ai parenti di campagna delle cassette di pomodori maturi, qualità Pera d’Abruzzo. Farci le bottiglie all’aperto, in agosto, tra le chiacchiere dei parenti di città, i giochi dei bambini e il ronzio delle mosche.

Cucinare, mangiare, bere, ridere. Fare famiglia.

Tornare a casa dal mare stanchi morti, cotti di sole, con la bambina che fa i capricci. Litigare ma dire: stiamo solo discutendo. Tra lenzuola appiccicose di sabbia sopportarsi.

Andare in chiesa. Andare in menopausa. Votare al referendum sull’aborto. Andare alle terme. Ingrassare. Dormire, in tutti i sensi.

Andare in pensione. Andare in depressione. Fare famiglia. Nella salute…

Ammalarsi di diabete. Andare in campagna, ritrovarsi. …e nella malattia. Mettersi a dieta. Cercarsi e non trovarsi.

Vedere la propria figlia diventare adulta, sbagliare, gioire e soffrire. Fidanzarsi e sfidanzarsi. Laurearsi. Pensare alla propria quinta elementare e piangere vedendola con la toga addosso. Nella gioia…

Leggere, cucire, mangiare. Mangiare, leggere. Piangere.

Andare in campagna, zappare, bere. Bere, zappare. Sudare.

Nascondere qualche bottiglia. Nascondere qualche cioccolatino.

Mettersi i bigodini e infilarsi sotto al casco. Mettersi la cravatta e infilarsi la giacca.

Comprare regali, festeggiare matrimoni e compleanni. Mettersi in posa per il fotografo.

Sopportare. Condivivere il noioso pesante comune insensato quotidiano. …e nel dolore.

Rallegrarsi e scontrarsi con la figlia. Non capirla, ma lasciarla libera. Vederla andar via, in paesi lontani, appresso ad amori e lavori. Amarla coi fatti.

Iniziare a usare l’Euro, ripensando ai vecchi centesimi di Lire.

Entrare in ospedale, operarsi, sentirsi fragili. Preoccuparsi. Riavvicinarsi. Sorridersi. Pensare che in fondo non ci manca niente.

Ridere tornando dalla campagna, portandole un fiore, una pesca calda di sole.

Piangere restando a casa, lavandogli i calzini, attaccando bottoni alle sue camicie.

Fare finta di niente. Stiamo solo discutendo. Fare famiglia.

Smettere di tingersi i capelli. Smettere di farsi la barba tutti i giorni.

Invecchiare. Dimagrire. Nella salute…

Farsi coccolare come figli dalla figlia. Andare dal dottore, dai dottori, fare analisi e test per l’Alzheimer, prendere le medicine. …e nella malattia.

Passeggiare, giocare a carte, fare il cruciverba, chiacchierare, ridere. Con la figlia, con la badante, con le vicine di casa.

Guardare la televisione. Fare il riposino. Russare.

Sorridergli, rifargli la carezza del cane la mattina a colazione.

Sentirsi dire per la prima volta “Ti amo” mentre si stendono i panni fuori dal balcone.

Una bella domenica di metà settembre, con la figlia e tutti i parenti attorno, entrare nella chiesa vicino alla villa comunale e riscambiarsi le promesse e le fedi. Non è tutto oro, quello che luccica; ma cinquant’anni insieme sono sempre cinquant’anni.

Nella gioia e nel dolore.

Nella salute e nella malattia.

Ne vivranno altri ancora insieme, prima che la morte li separi.

Fianco a fianco, a spasso nel parco.

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Franca Di Muzio

copywriter, ufficio stampa, giornalista, scrittrice... di mare