Diciassette motivi per sorridere :)

Franca Di Muzio
18 min readDec 31, 2020

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(Il 2020 mi ha fatto anche cose buone)

Lezione di disegno

1. Tonda come una mela, l’esplosiva chioma ricciuta tenuta a fatica insieme da un elastico, l’andatura spavalda, I. entra in classe sfoggiando la sua tenuta a quattro mesi a questa parte: leggins e maglietta bianchi e neri, sneakers imbottite. Sotto l’orlo della mascherina c’è un sorriso da pubblicità, sopra trionfa il suo nasino francese, che come al solito lascia scoperto, per poterselo grattare con comodo durante le lezioni.

Mimo con le mani il gesto di tirarsela su — sapendo che sarà solo il primo di una lunghissima serie di richiami. Ah sì!, esclama, come se si fosse dimenticata di una cosa insignificante, ubbidendo all’istante. Adesso le restano scoperti soltanto le braccia morbide e abbronzate e le caviglie cicciotte. Non sente freddo, I.: a dicembre inoltrato, di tutta la classe è l’unica che non si lamenta per le finestre che teniamo spalancate, per aumentare il ricambio dell’aria e diminuire le probabilità di contagio. Per lei non è un problema: perennemente accaldata, abbondante, allegra, tanto che il docente di Arte e Immagine all’inizio dell’anno scolastico ha creduto senza esitare alla sua bugia: non sono italiana prof, sono cubana! Facile al ridere e a distrarsi lanciando occhiate a raffica in direzione di T., che la ignora, I. scrive con una grafia tonda e larga come il suo corpo; in tre mesi ha già consumato una quantità indicibile di quaderni e di bianchetto, con cui si affretta a cancellare ogni minimo errore. Scrive rapidamente e volentieri, scrive su striscioline di carta dei messaggi cifrati che poi appallottola e lancia alla sua amica S., e che una volta ho intercettato con una presa da quarterback. I. e S. sono arrossite — un Noooooooooo! muto impresso nei loro occhi — ma quando hanno visto che non l’ho aperto si sono afflosciate dal sollievo: in quel momento, ho conquistato l’ambìto, volatile titolo di Prof Preferita.

2. Di riflesso, anche la sua compagna preferita controlla che la sua mascherina sia a posto sul nasino camuso; poi, dopo aver mimato a velocità supersonica con le braccia un miniballetto da TikTok, mi allunga un OK a forma di pollice. Le rispondo allo stesso modo, e lei ne approfitta subito: Prof, ti posso dire una cosa? In privato, però.

Nella pausa tra un docente e l’altro, usciremo insieme dall’aula e lei mi si avvicinerà troppo, spalancandomi due occhi nerissimi a pochi centimetri dal viso e parlandomi di I., che è trooooppo grassa!, I. che sta con T. però nessuno lo deve sapere; della prossima visita programmata a suo padre, o di sua madre che l’ha rimproverata o lodata; mi mostrerà per la centesima volta i suoi anfibi nuovi, Vero che sono bellissimi? Invece i tuoi prof, si vede che sono vecchi… Hai ragione S., ti prometto che li butto via oggi stesso. Ride e rilancia: Voglio i tuoi capelli, prof., i miei fanno schifo. Ma che dici, tu hai dei capelli bellissimi! Da orientale, sottili, lisci e neri; se li tocca in continuazione, legandoli e slegandoli con elastici fluorescenti, e nel mentre ci prova pure, S., a stare attenta alle lezioni. “Un miracolo che cammina”, l’ha definita la docente di religione durante l’ultimo consiglio di classe, zittendo chi diceva che per i Rom la scuola è una perdita di tempo, che stare appresso a loro è una battaglia persa, e invece no: S., dopo un inizio anno a dir poco movimentato, sta dimostrando impegno e buona volontà, e di tutti i suoi compagni è forse quella che soffre di più, soffre in silenzio, con il padre in carcere.

3. D’altra parte la nostra scuola si trova al confine tra due quartieri a rischio, ritenuti a torto e ragione i peggiori di Pescara. Altissime percentuali di dispersione scolastica, micro e macro criminalità, fuochi d’artificio esplosi a mezzanotte per segnalare a orecchie interessate che le partite di droga sono finalmente arrivate, retate, macchine bruciate, vandalismi assortiti perpetrati spesso e volentieri da minorenni. Tra questi ultimi eccelle E., il più piccolo in statura della nostra classe. Arriva sempre in ritardo, dipendente dagli orari di una madre ai domiciliari, e va a mettersi in fondo, all’ultimo banco, affianco ai suoi compagni alti e grossi, sepolto da un bomber di due taglie più grandi da cui spunta la sua testa da pulcino, bucata da occhi enormi. “Cosa fate nel tempo libero?”, chiese il primo giorno di scuola la docente di tecnologia, e alcuni risposero: Chiedilo a E., prof!, che cosa fa!! E. però restò muto — in effetti, ha iniziato a parlare a sei anni, ha un ritardo nello sviluppo, una dislessia, un padre latitante, sette tra fratelli e sorelle. “Diglielo diglielo, che il pomeriggio vai a lanciare le bottiglie vuote contro il muro della caserma dei carabinieri!”, insisté C. Ed E. tirò fuori un sorriso di vergogna e di orgoglio, che gli rimase appiccicato addosso durante tutta la lunga predica civica della docente, un sorriso accecante come un raggio di sole in piena faccia, un sorriso che mi scioglie ogni volta che mi siedo accanto a lui e, a colpi di stampatello, cerco di rimetterlo al passo con gli altri. Ma se in italiano E. arranca, in matematica è un fenomeno: finisce di fare gli esercizi prima di tutti senza sbagliarne uno, beve ogni parola delle lezioni, ha fame, fame di sapere, ed è quella fame che lo tiene inchiodato al banco per sei ore, imperturbabile e concentrato a fare i compiti anche durante le ricreazioni, indifferente alle turbolenze dei compagni.

4. Uno dei più irrequieti è C. Occhi neri sormontati da sopracciglia rasate a intermittenza e da una cresta di capelli tinti d’arancione da uno sciagurato barbiere di periferia, anima le nostre mattinate con il moto perpetuo del suo alzarsi e sedersi, zigzagare come un grillo tra i banchi, voltarsi a parlare con la sua vicina di banco L. per cui ha una sotterranea cotta reciproca, frugare invano nello zaino dal quale manca sempre qualcosa, alzare la mano per andare al bagno, buttare una carta nel cestino, offrirsi di andare a fare le fotocopie, dire la sua e raccontarci cose che nella maggioranza dei casi non hanno alcuna attinenza con l’argomento delle lezioni, o stupirci con delle uscite acute, pertinenti e colte delle quali non si indovina la provenienza. Accudito da nonni quasi illetterati, tiranneggiato dagli scherzi di una marea di sorelle più grandi, C. è l’unico nella classe che non ha paura di provare a indovinare il significato delle parole nuove e difficili, e spesso le azzecca; per il resto, fa il minimo indispensabile per strappare voti sopra la sufficienza in quasi tutte le materie. “Hai una bella intelligenza: non sprecarla”, gli ripete la docente di storia e geografia; ma C. ha altro che lo assorbe e lo preoccupa, un tarlo dentro che gli rode e che non lo molla neanche un minuto, facendolo mettere sulla difensiva ogni volta che lo richiamiamo, strillando Non è colpa mia, prof! e Ce l’avete tutti con me!, alternativamente; e allora con il permesso del docente di turno lo inviterò ad accompagnarmi fuori, in un angolo tranquillo, dove occhi negli occhi lo chiamerò per nome e lui, tormentando una manica della sua tuta acrilica, mi dirà cosa lo turba o lo disturba. Poi sarà il suo turno di farmi domande: lei ha fede, prof? Crede in Dio? E cosa ne pensa dei gay? E delle persone LGBTQ? Rientreremo facendo finta di nulla, con addosso gli sguardi interrogativi dei suoi compagni.

5. Stravaccato su una seggiolina troppo piccola per la sua stazza, il suo vicino di banco D. inizierà subito a fargli cenni insistenti per farsi raccontare com’è andata là fuori, beccandosi così i rimproveri della docente di matematica e, spesso, anche una nota sul registro. Clamorosa smentita della regola scolastica dei più svogliati fissi all’ultimo banco, D. oscilla tra obbedienza e turbolenza estreme, pose da bradipo e ganci finti menati nell’aria, in direzione dei suoi compagni. Corpo massiccio e compatto, capelli a spazzola su un viso pienotto e infantile, D. di pomeriggio frequenta assiduamente la palestra aperta da un ex pugile professionista, e si vede. A colpirci più di tutto è il suo sguardo azzurro, freddo e indifferente: lo sguardo di uno abituato a ricevere e a dare colpi. Lo tira fuori quando proprio non ne vuole sapere di fare l’allievo, come scudo di fronte ai rimproveri e alle minacce dei docenti. “A volte mi punto, e non voglio farle, le cose”, ammette, quando superata la fase critica lo sguardo gli torna bambino, del bambino che il primo giorno di scuola, all’invito di presentarsi, risponde: “Mi chiamo D. e i miei genitori sono separati; ho due mamme e due papà”. Sui fratelli, D. tace: figlio unico per undici anni, adesso la sua mamma è incinta del nuovo compagno; viene a prenderlo spesso a scuola e se lo coccola come può, come il padre che gli promette nuovi giochi per la Playstation se farà il bravo e non darà fastidio ai professori. “Che parolacce ha detto mio figlio in classe? Me lo dica”, insiste, ma io scuoto la testa, fissando quei tatuaggi sul collo, quegli occhi identici a quelli di D.

6. Nel banco affianco al suo, proprio di fronte alla lavagna, N. fissa con occhi affranti lo schema di squadratura del foglio che la docente di tecnologia ha appena finito di disegnare. Quando mi giro verso di lui alza subito una mano, Dimmi N., cosa c’è. Non lo so fare, prof. Se non ci hai ancora provato… Prendi la riga, su. Reprimo l’impulso di accarezzargli la cresta ispida di capelli biondo grano e la nuca rasata a zero, ondulata da rotolini di ciccia bianchissima. Lui piazza riga e matita nei punti giusti del foglio, ma prima di tracciare la prima linea alza verso di me uno sguardo color acquamarina dietro occhiali spiritosi, Va bene così, prof? Ma certo N., continua! Riacquistata in un lampo la fiducia, procede serenamente e senza errori, riportando voti sempre sopra la sufficienza.

N. è uno dei pochi della classe che fa i compiti a casa, perde raramente la calma, si intuisce che è un bambino amato, seguito, accompagnato da una mamma mamma placida, premurosa e sorridente, e da un pulmino che lo porta e lo preleva un quarto d’ora dopo l’inizio e un quarto d’ora prima della fine delle lezioni: i suoi andirivieni danno ai docenti il momento di registrare le assenze nella prima ora, ai compagni la sveglia dal torpore dell’ultima — astucci che cadono, zaini che si aprono, mascherine che calano dietro risate a lungo represse, quel precario equilibrio di forze attenzionali che ogni docente si sforza di raggiungere e mantenere ormai compromesso dall’uscita precoce di N., che invece è capace di stare calmo e concentrato fino all’ultimo minuto in classe, che si impegna facilmente e altrettanto facilmente si scoraggia, e che a ricreazione, dopo aver compulsato con gusto una pizzetta a forma di materasso, corre in fondo all’aula a trovare i compagni con cui entusiasmarsi per Minecraft.

7. Altro patito dei videogiochi è il pallidissimo, barcollante A., facile preda di mal di testa e mal di stomaco da mancata colazione, A. che fa le quattro del mattino sulla Playstation e che poi in classe crolla addormentato sul banco già alla seconda ora. Non è la prima volta che succede e, mentre i suoi compagni ridacchiano e lo sfottono, la prof di italiano (che è anche vicepreside) alza gli occhi al cielo e comanda al collaboratore di chiamare i suoi genitori; o meglio sua madre, dal momento che il padre non “collabora”. Arriva una donna stravolta da cinque figli in varia età scolare, ascolta il nostro resoconto e stabilisce di sequestrargli Playstation e cellulare ogni sera, prima di andare a dormire. Il giorno dopo A. è insolitamente vispo, la schiena appoggiata dritta alla sedia, gli occhi spalancati alla lavagna, la mano destra pronta a scattare per intercettare il mio sguardo ogni volta che non ha capito qualcosa. Inchiodato al banco, gli arti rigidi, scrive solo sotto dettatura, con molta lentezza e cura, come se il quaderno fosse un campo minato; finché arriva l’ultima ora, quella di educazione motoria: ed è allora che A. riprende pieno possesso del suo corpo secco e lungo, schizzando come una marionetta impazzita da una parte all’altra del cortile, dietro le giocose traiettorie del pallone da calcio.

8. Perché non giochi?, chiedo a T., che appoggiato al muro con le braccia conserte fissa i suoi compagni con sguardo sapiente e disilluso. Sono Stanco, risponde, socchiudendo gli occhi nerissimi. Ma per favore… dai, muoviti, fai vedere che almeno ci provi, a fare qualcosa!

Stereotipo incarnato del “pigro”, ovvero (in dialetto pescarese) del Rom non integrato, primatista di assenze ingiustificate, T. sopporta le lezioni blindandosi in una felpa col cappuccio, tirando palline di carta ai compagni e strattonando i lunghi capelli di A., che gli siede davanti. Prof, guarda, mi dà fastidio! Vieni T., andiamo fuori. Esce insieme a me, riluttante e insieme vittorioso: va bene tutto, pure andare in giro con la prof, pur di non starsene fermo in classe… poi gli torna in mente quello che faccio, e si ghiaccia: Prof, a me il sostegno non serve. E allora dimostralo: se stai sempre e solo a cazzeggiare… sgrana gli occhi alla mia parolaccia, Tanto prof io a scuola non ci voglio più venire!, io voglio fare l’ambulante. Ho capito T., ma anche per fare l’ambulante ti serve, la licenza media; se già in prima cominci così… mica ci vogliamo far bocciare? Rientrati in classe, T. tirerà stancamente fuori dal suo zaino un armamentario di fotocopie stropicciate, matite smozzicate e quaderni intonsi, che battezzerà con il suo nome scritto in uno stampatello cubitale: è già qualcosa.

9. A. si gira un attimo a fissarlo con occhi insolenti, come a dirgli: era ora!, poi mi lancia uno sguardo di solidarietà femminile, si scosta i lunghi capelli castano chiaro dal viso e si rimette tutta compunta a seguire la lezione. Apparentemente non fa nessuna fatica in nessuna materia, non esita a fare domande se non ha capito, se interrogata ha quasi sempre ha la risposta pronta; colleziona ottimi voti e uno strabiliante assortimento di evidenziatori in sfumature pastello, ma, con il suo corpo sottile e aggraziato, il suo nome esotico e un faccino da gatta con occhioni verdi che le attirano la sorda ammirazione dei compagni e l’invidia delle compagne, è ben lontana dall’immagine anodina della secchiona standard. A ricreazione prova ad ignorare in blocco i lazzi dei maschi, e quando non riesce a trattenersi dal prenderli in giro o rimproverarli, spartisce le sue merendine al cioccolato e le sue confidenze con le più carine della classe: L., H. e R. C. Un quartetto di piccole comari cui nulla sfugge, e che fissa ogni mattina i miei outfit con occhio clinico per poi commentarli tra loro, in attesa dell’appello. Chiacchierano a lungo finché non si accorgono che le sto fissando; poi, se il responso sul mio look del giorno è favorevole, me lo comunicano con delle vocine adulatorie e fintamente sottomesse: “Adoro i suoi pantaloni, prof!” “Anch’io!” Tutte li adoriamo!” “Io i suoi stivali!”.

10. T. lancia uno sguardo color nocciola ai miei pantaloni e poi torna a guardare fuori dalla finestra, assorta in pensieri ignoti. Pur essendo italianissima, porta un nome straniero molto particolare che sin dal primo appello è stato adottato e abusato dai maschi, che lo usano come esclamazione ogni volta che vogliono indicare stupore o rimprovero. Lei però sorride e tace, timida piccola Gioconda dalle braccia conserte, che fatica a concentrarsi e che quasi mai partecipa alle lezioni o chiede spiegazioni: gioca ad essere invisibile senza esserlo affatto, oberata da un medio sovrappeso che la complessa al punto da non voler mai andare alla lavagna — Posso restare qui al banco, prof?, mi chiede, con una vocina fioca. Tanto ci stanno andando tutti, T., tra poco toccherà anche a te. Non voglio, prof. La sua amica del cuore I., più cicciotta ma decisamente più spensierata di lei, la incita strillando: Vacci, vacci! E allora T. lentamente si alza e va alla lavagna, che tratterà come se fosse un quaderno, scrivendoci sopra in un corsivo piccolissimo. Appena possibile tornerà al suo banco, ansante dal sollievo, la lunga coda castano ramato ondeggiante sul piumino traslucido. Che bei capelli che hai, T.: perché non te li sciogli qualche volta? Scuote la testa, ma un sorriso spunta timido sotto la mascherina.

11. Chi non teme di fare domande né brutte figure è H.: Come mai lei ha le ginocchia a punta, prof?, mi chiede candidamente una mattina che mi appoggio al suo banco, incrociando le gambe. Guardo in giù e scoppio a ridere alla vista delle mie rotule: così imparo a mettermi la minigonna per andare a scuola. E che ne so, H… ognuno ha le sue, le tue come sono? Ride anche lei, sollevata dal fatto che non me la sia presa, e me le mostra: minute e rotonde, fasciate da leggins grigi con arabeschi bianchi, in tinta con il maglioncino melange a trecce e la sciarpa morbidosa con cui gioca in continuazione. Vanitosa con giudizio, H. sfoggia ogni giorno un completo diverso e perfettamente coordinato in toni chiari, che mettano in risalto la sua chioma afro e la sua pelle color cioccolato. “Da grande voglio fare la top model”, ha proclamato il primo giorno di scuola quando facevamo le presentazioni, il che non le impedisce però di studiare, e di agghindare con cura tanto se stessa quanto i suoi quaderni, presi ad esempio dei professori e modello di riferimento dei compagni per grazia e precisione. Molto portata per il disegno, H. ha sempre a portata di mano un foglio che istoria di decorazioni colorate, e che spesso la porta a distrarsi e a ricevere rimproveri.

12. Altro modello di ordine scrivano è la sua compagna L., con cui H. condivide la passione per la moda. Ma se H. è totalmente succube delle ultime tendenze, adottandole acriticamente, L. le domina, scegliendo di indossare solo i capi che rispecchiano in toto la sua personalità ribelle. Una ribellione ben mascherata da ottimi voti, ma svelata da una persistente riluttanza a indossare la mascherina — spesso e volentieri calata sotto il nasino impertinente — e da un costante, continuo cambio di colore e taglio dei suoi capelli, di natura lisci e corti: dalle striature rosa confetto al frisé alle extension multicolori di treccine rasta, che hanno come effetto quello di moltiplicare gli sguardi adoranti di C. nella sua direzione e gli sberleffi di D., che inquadra i due mettendo le dita a cuoricino. Guarda D., prof!, ci prende in giro! D., che c’è? Prof, L. e C. sono innamorati, hahahaha… E se anche fosse? Sei geloso, per caso? D. resta interdetto, le orecchie d’improvviso purpuree, mentre tutta la classe scoppia a ridere, C. si gonfia come un pavone e L., per dimostrarmi la sua riconoscenza, si tira su la mascherina, abituale calamita di rimproveri e note sul registro.

Orario definitivo

13. Dal fondo dell’aula, F. alza la mano per richiamare la mia attenzione. Mi avvicino, tendendo l’orecchio. A voce bassissima e in un italiano stentato, mi fa domande a cui i suoi compagni hanno già trovato da tempo la risposta, mentre la lezione va avanti: Quale quaderno devo prendere adesso? Devo ricopiare quello che sta sulla lavagna? Come si scrive? Va bene così? Il suo stampatello dubbioso, monco e inclinato e l’esecuzione dei compiti non accennano a migliorare nonostante le ore di potenziamento, e nell’ultimo collegio dei docenti oltre allo svantaggio socioculturale — di madrelingua rumena, sua madre non parla una parola di italiano e suo padre si fa capire come meglio può — si sono ipotizzati ritardo mentale, dislessia: tra tutti, è il più bisognoso di sostegno, anche se non ha certificazioni che gliene diano il diritto. Mi siedo accanto a lui, lo incoraggio, lo correggo senza esagerare, e quando si ferma e mi fissa scoraggiato gli parlo in dialetto pescarese (che capisce benissimo), riuscendo a fargli spuntare quelle belle fossette sulle guance e sul mento che intravedo quando, spesso e volentieri, si cala la mascherina “per respirare”. Preso in giro dai compagni più grandi,. F. si difende a modo suo, rispondendo loro con le parolacce apprese nel quartiere o facendo appello alla solidarietà di suo cugino A., anch’egli nella nostra classe.

Compiti a casa

14. A., al contrario di F., parla e scrive in italiano correntemente e non ha difficoltà a seguire le lezioni, ma fa i compiti di rado perché… Mi sono dimenticato, Non ho voglia, Non li so fare, Mi annoio. Ragazzino robusto e apparentemente allegro con abissi di malinconia (vive con i nonni; i genitori sono rimasti in Romania), quando non si incupisce al pensiero degli episodi di bullismo di cui è stato vittima è brillante e volenteroso, stupisce i docenti con le sue competenze informatiche e si entusiasma per il calcio. Negli ultimi giorni però si è oltremodo impigrito, sopporta le lezioni interagendo in rumeno con il cugino, attirandosi così i rimproveri dei docenti e la stima dei compagni peggiori. Me lo porto fuori dall’aula, Mi vuoi dire che ti è successo, A.? Cosa c’è che non va? Lui punta gli occhi neri diventati improvvisamente lucidi sul pavimento: Niente, prof. Hm, non mi pare… mica ti hanno dato di nuovo fastidio quelli di terza? Lasciamo perdere, prof. Non lasciamo perdere proprio niente; allora? …mi hanno chiuso in bagno… Come? Quando? Chi? Eh non lo so, chi. Tenevano la porta ferma e non mi facevano uscire, finché non sono scappati… Ieri. E non li hai visti? No. Tanto c’è il registro dei bagni, così scopriamo chi è stato. No prof., preferisco che non si viene a sapere! Preferisci che ti fanno lo stesso scherzo un’altra volta? …Prof, ma tu insegni da tanto? No A., perché me lo chiedi? Così…

15. Al confronto incrociato con il referente del bullismo si aggiunge la deposizione spontanea, disincantata di S., residente nel palazzo peggiore del quartiere peggiore della città e dunque avvezzo ad episodi simili: Prof, io lo so chi sono, li conosco quelli di terza che stanno sempre in bagno!, tutti i giorni, per un sacco di tempo! Senti chi parla: l’ultima volta tu ci sei rimasto mezz’ora, e ti sei beccato la nota della prof di religione! S. ride, scrollandosi dagli occhi il lungo ciuffo castano: Io però non chiudo gli altri dentro al cesso, prof. Torniamo in classe S., che sennò ti perdi tutta l’ora di lezione. Prof, ma a me il francese non mi piace. Eh te lo fai piacere, S. Sbuffa sotto la mascherina, le mani perennemente affondate nelle tasche, il passo ondeggiante sotto una stazza ragguardevole: E come faccio, prof? Intanto, comincia a stare attento durante le spiegazioni. Uff… S., eddai: potresti avere voti alti in tutte le materie, lo sai? Francese compreso; se solo ti ci mettessi d’impegno! Classico alunno “bravo, ma non si applica”, S. risica sufficienze grazie a una memoria di ferro e alle sue competenze pregresse, molto più approfondite di quelle della maggioranza dei suoi compagni. Come troppi di loro, vive la scuola come un parco giochi, e la prende davvero sul serio solo durante le lezioni meno teoriche: educazione motoria, tecnologia e scienze.

16. Tutti gli alunni hanno delle materie preferite; quelle di R. C. sono inglese e italiano. Tutti i docenti hanno degli allievi preferiti, anche se non lo dicono; la mia dovrebbe essere lei, R. C., l’unica che avrebbe diritto al sostegno, la ragione vivente per cui sono approdata qui. Alta, snella e pallida, coda di lucidi capelli neri che le arriva alle ginocchia, occhi scuri a mandorla, unica allieva della classe ad avere un doppio nome, italiano e straniero (ma lei preferisce il secondo, decisamente più esotico), R. C. è stata assente per un mese a causa del Covid di un parente con cui la sua numerosa famiglia Rom era stata a contatto: dovrebbe essere quella che conosco di più, invece è quella che conosco di meno. Con un padre malato e una madre ai domiciliari che devono badare ad altri sette figli, R. C. a casa combina poco e niente, ma in classe è diligente e volenterosa, rispettosa e concentrata. Siete proprio sicuri che abbia bisogno del sostegno?, a me pare che stia meglio di tanti altri!, ho chiesto al coordinatore di classe, che mi ha confermato la diagnosi che solo dopo giorni di osservazione si è palesata anche ai miei occhi, e che ha preso consistenza nel rifiuto di R. C. di usare il diario. Non ce l’ho, prof, non mi serve. E come fai a ricordarti i compiti? Li scrivo qua… Qua, dove? Mi mostra un quadernone fitto di schemi governati da un’oscura logica. Ho capito, R. Senti, R., anzi, C.!, qual è il tuo colore preferito? Il rosa, prof. Te lo posso comprare un diario? Rosa! Va bene prof, grazie.

17. Sono io che dovrei ringraziarti, R. C.; che dovrei ringraziare tutti voi che date un senso al mio lavoro, che mi fate sentire utile e alzare ogni mattina con il sorriso, mie care sanguisughe, vampiri che mi assorbite energia di minuto in minuto, serbatoi di energia a cui attingo di minuto in minuto. La mia prima Prima Media, la mia prima classe, la mia prima supplenza annuale a orario pieno, il mio primo anno da docente di sostegno, che in teoria sostiene” soltanto gli allievi che le sono assegnati, ma nella pratica tutti gli alunni, chiunque abbia bisogno. Mi tremavano le gambe quella mattina, a vedervi schierati dietro i banchi, ricambiando i vostri sguardi smarriti, curiosi, indagatori, assonnati: era la prima volta anche per voi, il primo giorno in prima media, e meno male che con noi c’era una prof di lungo corso a fare gli onori di casa e che mi ha introdotta, “Lei è la prof di tutta la classe, una risorsa preziosa per tutti”, e io in preda alla sindrome dell’impostore pregavo silenziosamente che nessuno arrivasse a svelare la verità: che io non avevo mai “fatto” Sostegno in vita mia, che sì l’ho studiato (poco), e quest’anno ho anche provato il concorso per la specializzazione ma che per mezzo punto non ce l’ho fatta a superare la preselezione; che sono abilitata sì, ma per insegnare lingua e civiltà Inglese, e che pure quelle le ho insegnate secoli fa, nel secolo scorso, in un altro Paese, in un’altra vita, più spensierata e meno consapevole, più propensa a buttarsi all’avventura, a provarci ad affrontare l’ignoto, quell’ignoto di cui a settembre ho sentito l’irresistibile richiamo, venendo a sapere per caso che c’erano le convocazioni per il sostegno e che io (io?!?) ero in graduatoria in posizione utile per beccare una supplenza, pur senza titolo, e mollando di botto un altro lavoro in ambito scolastico.

E da allora cresco ogni giorno insieme a voi, care sanguisughe undicenni, sempre imparando e spesso improvvisando sul campo, ripartendo i miei pomeriggi tra tomi di pedagogia, psicologia, didattica e legislazione, consigli di classe, collegi dei docenti e seminari online, perché io l’anno venturo ci riproverò a passare la selezione per la specializzazione, a frequentare di nuovo l’università e a prendermi il titolo, perché in questo altrimenti funesto 2020 il Sostegno come un grande amore mi ha presa d’improvviso e stregata chissà per quanto ancora, perché dopo anni di caregiving con genitori anziani, grazie a voi ho scoperto che si possono “sostenere” le persone in tanti modi e in altre età, condividendo lo sviluppo invece del declino, proiettandosi nel futuro invece che nel passato e riassaporando così la gioia di vedere il mondo con occhi freschi, occhi nuovi: i vostri.

E se è una femmina si chiamerà: Futura…

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Written by Franca Di Muzio

copywriter, ufficio stampa, giornalista, scrittrice... di mare

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