Genova per me (che non c’ero)
Nel luglio 2001 il mio principale impegno politico consisteva nell’esercitare il diritto di voto e nel restare informata tramite cronache e speciali tivù seguiti con più attenzione del solito, specie all’approssimarsi del G8 di Genova, evento mondiale cui molti miei coetanei avrebbero partecipato: l’afflusso previsto in città era imponente, giovani sarebbero arrivati da tutta Italia e dall’estero, con ogni mezzo; ma io allora ero presa da altro, dal trasferimento nella mia rossa città d’adozione, dove ero sbarcata giusto un mese prima con un contratto a tempo determinato che prometteva bene, molto bene.
Nel giro di un mese tutta la mia vita era cambiata: casa, abitudini, lavoro, colleghi. Fin dal mio primo ingresso quella mattina in Piazza delle Medaglie D’Oro, pietrificata in una cappa di afa davanti all’orologio fisso all’ora della strage, sentii di essere a una svolta nel mio percorso individuale, e allo stesso tempo di far parte di un movimento, di un sentire comune — laureati disoccupati del sud che cercano e trovano lavoro al nord — di un gruppo dai vissuti simili: la ricerca e la condivisione di una casa con perfetti sconosciuti, lo spartirsi i ripiani del frigo e le mensole del bagno, il tentativo di salvaguardare uno straccio di privacy chiudendo a chiave la porta della propria stanza — quella stanza che soltanto dopo trenta giorni (e lunghe notti) in albergo, sarei riuscita a trovare:
-Chi ti ha parlato di me e di questa casa?, mi chiede T., spilungone pugliese naturalizzato bolognese, fissandomi con occhi infossati da chattaro e cannaro notturno. Pare un personaggio dei fumetti che sto divorando da qualche giorno a questa parte, pescati in un’edicola in centro città.
- Ehm, come ti dicevo ieri al telefono: il tuo numero me l’ha dato S., un’amica di una tua amica…
- S. chi? Aaaaahhhh, sì sì sì. Ma, vedi, io poi ieri sera ho preso un mezzo accordo con un altro mio amico per dare la stanza libera a un’altra persona.
Zittendo il Dimmelo prima cazzo! che sento montarmi in gola, scelgo l’opzione Scena Pietosa, opportunamente condita dal casuale abbassamento di una spallina della mia sudatissima canotta:
- Ti prego, aiutami: questa è la sesta casa che vedo da quando sono arrivata a Bologna, è un mese che dormo in albergo e mangio pizza da asporto, mi stanno finendo i soldi, non so più cosa fare!
Con piglio padronale, mi sogguarda la canotta; continuo a sudare. Su Franca insisti che stavolta ce la fai:
- Sai qual è l’unica offerta che ho avuto? Da un tizio che voleva SEICENTOMILA — LIRE per uno sgabuzzino senza finestra con dentro un letto singolo e stop… e nel bagno c’era pure un armadillo imbalsamato inchiodato sopra il cesso!
Il naturalizzato scoppia a ridere e per un attimo torna ragazzo del Gargano in trasferta. — Nooooooooo, un armadillooooo? Noooooooooo. Ahahahahahahahah, che merde!!! — Si asciuga le lacrime, e prosegue a fatica tra accessi di risa:
-Sapessi le case che ho visto io quando sono arrivato qui, dieci anni fa! Poi ti racconto. Vieni, ti faccio vedere la stanza.
Pavimento a piastrelle bicolori esagonali anni sessanta. Muri crepati, infissi vecchiotti di ariosa finestra affacciata su giardinetto incolto. Soffitto alto trafitto da pendente, solinga lampadina. Vissuto materasso da una piazza e mezza, tavolino con sedia e parete libera, lunga quanto basta per piazzarci un’asta per appenderci i vestiti: una reggia, rispetto al claustrofobico spettro dell’armadillo. A soli dieci minuti a piedi da Piazza Santo Stefano, cinque minuti dai Giardini Margherita e per cinquecentomila lire al mese, poco meno della metà del mio stipendio di copywriter junior, è praticamente regalata.
Finalmente Casa. Cadente, costosa, preziosa, condivisa Casa. Il mese successivo, in un impeto di fraternizzazione tra coinquilini forzati, io e T. l’avremmo stuccata e ritinteggiata tutta.
Non che me la vivessi molto, comunque: uscivo la mattina alle 8 per andare al lavoro e tornavo alle 19.30, pendolando con molteplici mezzi tra il centro e l’estrema periferia bolognese, ma andava bene così: stavo facendo esperienza, costruivo il mio futuro professionale!
T. era più che felice della mia assenza: lavorando in casa, poteva averla tutta per sé e sopportarmi giusto il tempo di una cena, seguita dal rispettivo blindarsi in stanze attigue. Il biip biip biip biip notturno delle sue primordiali chat con sconosciute, accompagnato dal fumo delle sue canne, si trasformò presto da fastidio in ninna nanna; “ogni principio è duro!”, “coraggio e cuore di pecora!”, risentivo la voce di mio padre raccontarmi dei suoi primi spaesati, sacrificati mesi da recluta carceraria a Venezia. Quant’è vero papà che ci si abitua a tutto, specie se non si ha alternativa; ma adesso, presa dai miei nuovi impegni, non ci penso neanche a cercarla. Bologna ha tanto da insegnarmi e da darmi, in questi primi mesi ho ancora tutto da scoprire: questa è un’occasione che non posso né voglio perdere.
La casa e il coinquilino mi rivelano giorno dopo giorno le proprie magagne, ma il lavoro in agenzia mi piace sempre di più; tengo duro fino al fine settimana, quando faccio la tipica fuga al contrario da emigrante — siamo in estate, e in estate i nostri uffici chiudono il venerdì a ora di pranzo: prendo un permesso orario, un taxi, il primo treno disponibile e via!, verso la sirena riviera adriatica. Da Ancona in poi, fissando le sue spiagge dorate e acque turchine scorrere fuori dal finestrino, punteggiate da bagnanti beati, conto i minuti che mi separano dalla stazione di arrivo: Pescara Centrale, dove avrei trovato ad aspettarmi mio padre, come me lacerato dalla nostalgia ma orgoglioso di avere una figlia su al nord, una figlia che si sta facendo strada: chissà se un giorno avrebbe ripreso quella di casa? Per il momento va bene così, l’importante è lavorare.
Ed è proprio durante uno di quei torridi fine settimana adriatici, nella controra, mentre pigreggio sul divano con la tivù accesa, che Genova irrompe nella mia vita per non uscirne mai più.
Con quel caldo afoso, quel caldo da mare, da tuffi, da docce, da ghiaccioli, da gelati, da coccofrescococcobellooooo, c’è chi, alla mia stessa età, sceglie di starci dentro, di esserci, di marciare, di protestare contro i potenti del mondo, di dimostrare che “Un Altro Mondo è Possibile”.
Li guardo e mi sento un’extraterrestre, a distanze siderali da loro, mi sento in colpa: loro hanno degli ideali, e io? Io che all’università ho schivato perfino la Pantera, cosa ci faccio qui sul divano, acciambellata peggio di una pensionata a guardare RaiUno? Sono o non sono giovane? Credo o no in un futuro e in un mondo migliore? Allora è lì che dovrei essere, in corteo a Genova, grande città di mare, a manifestare, a fare gruppo: lo capisco solo allora, che è lì che si sta facendo la Storia, che chi ha una vera coscienza politica e civica sta dando il suo piccolo grande contributo, confuso ed esaltato nel mare di dimostranti.
A tratti placido come l’Adriatico, poi d’improvviso tumultuoso come un oceano, onde su onde di volti slogan cartelloni danze, arginati a forza dalle paratie di scudi di plastica, divise, caschi e manganelli, sovrastati da rumori sempre più forti ed inquietanti — spari, botti, boati, elicotteri, urla. Sembra un film, ma non è un film. Le telecamere di RaiUno vagano qua e là, inquadrando a caso, finché l’oceano inizia a frantumarsi in una moltitudine di fughe, inseguimenti, corse, fumogeni, lacrimogeni, scontri. Alzo il volume con una sensazione di tragedia imminente addosso… uno sparo più forte degli altri, un ragazzo con canotta bianca, jeans e passamontagna steso a terra, un Defender che fa retromarcia alla cieca e lo stritola in un lago di sangue.
NOOOOOOOOOOOO!, sono in piedi davanti alla tv, le mani nei capelli, al sicuro nel salotto di casa mia, lontana da quella guerra, a urlare e piangere insieme a quella folla, ascoltando lo scambio di insulti tra dimostranti e forze dell’ordine: Bastardi, lo avete ucciso, bastardi! Lo hai ucciso tu, con il tuo sasso!, a chiedermi Che cazzo sta succedendo a Genova? Che cazzo ci faccio qui a Pescara, dove cazzo ho vissuto finora, sulla Luna?, e penso a quei miei amici di amici bolognesi che sono andati lì: chissà dove sono adesso, dentro o fuori da quel macello, quella macelleria.
I miei accorrono in salotto, guardiamo attoniti il sangue allargarsi sotto il corpo di Carlo Giuliani, ragazzo; papà pensionato delle forze dell’ordine ha il volto terreo e non parla, mamma si fa il segno della croce e sussurra preghiere, e io, io mi dispero e mi rimprovero, tra incredulità, sollievo e senso di colpa, Meno male che non sono lì, Perché non sono lì?
Ma perché sei sempre stata fuori dalle masse Franca, da brava figlia unica ti sei sempre tenuta ai margini, allergica ai gruppi di ogni colore.
Addio mare. Torno a Bologna, alla mia casetta in condivisione, al mio lavoro con colleghi variamente impegnati — quasi tutti conoscono qualcuno che conosce qualcuno che a Genova ci è stato, ognuno con la sua storia la sua versione la sua personale tragedia da raccontare. Tra tante, a rimanermi più impressa sarà quella del figlio del giornalista Gian Paolo Ormezzano — mio coetaneo, pacifista, sicuramente non un black bloc, sicuramente pestato a sangue anche lui, a casaccio, nel mucchio.
Pochi mesi dopo quel funesto 20 luglio genovese, manifesterò inutilmente anch’io, stretta insieme ai miei colleghi in un lunghissimo corteo che sfocerà in Piazza Maggiore, dove Sergio Cofferati sta dando voce al nostro sdegno contro chi vuole abrogare l’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Quattro anni dopo, in quella stessa civile Bologna dove ho trovato il mio primo lavoro serio, abbracciando con entusiasmo la mia identità professionale, morirà sulla strada un altro ragazzo per mano delle forze dell’ordine: Federico Aldrovandi.
Cinque anni dopo, in spensierata vacanza all’estero, incontrerò un mio coetaneo del nord. Alto, bello, sicuro di sé e con un che di marziale nel portamento. Con la confidenza che spesso si instaura improvvisa tra connazionali sconosciuti, mi racconterà senza scendere in particolari che lui a Genova c’era ma dall’altra parte, a comandare un plotone: esperienza che frantumò i suoi ideali, e in seguito alla quale decise di lasciare l’Arma per l’insegnamento.
Vent’anni dopo, con un lavoro diverso e una vita diversa sulla riviera adriatica, come ogni volta che sento parlare di Genova mi prende la nausea e mi risuona dentro lo stesso molesto senso di colpa: tu lì non c’eri, e invece avresti dovuto esserci.
Ma a fare cosa Franca, l’eroe, il Don Chisciotte, a farti massacrare inerme, come tanti tuoi coetanei e non? A difendere, e poi a perdere definitivamente, la speranza in un mondo migliore? Con il senno di poi, non è stato meglio invece, molto meglio, ritrovarti qui oggi ancora viva, sana, senza lividi, senza traumi, a scrivere i tuoi inutili, ignavi ricordi?
Giusto questo posso, giusto questo devo fare.
Perché io, a Genova, non c’ero.