Il fuoco della terra, il tempo dell’arte
L’attualità di Annunziata Scipione
- Molto belli, vero? A me fanno pensare ai quadri del Doganiere, e a lei?
Borsalino di paglia, foularino a pois, aroma di tabacco e di ricordi: ci voleva un professore in pensione per scuotermi dalla mia sindrome di Stendhal.
Così di solito accade ai vernissage — incontrarsi davanti a un quadro, conversare, scambiarsi i bigliettini da visita — poi ognuno torna alla vita di sempre, quella in cui l’arte riveste un ruolo marginale.
Raramente succede che un evento artistico ti coinvolga ben oltre le ore trascorse a esplorarlo, fotografarlo, commentarlo, piluccare canapè e prosecchi; e quando, a distanza di tempo, ti rendi conto che tu da quella mostra in realtà non sei mai uscita, continuando a covarla con un senso di meraviglia e insieme di disagio, decidi di prenderti il Tempo di rifletterci su, di capire meglio Chi, Cosa, Come e Perché.
Quel “tempo” che hai sempre detto di non avere, e che da un anno, complice la clausura da pandemia, ti è stato restituito.
Chi, cosa, come e perché.
Chi è una donna dal nome religioso e dal cognome guerriero: Annunziata Scipione, vissuta in un paesino della provincia di Teramo dal 1928 al 2018.
Cosa è il suo percorso artistico, illustrato magistralmente dalla mostra “Il Fuoco dell’Arte”, inaugurata nel 2019 negli spazi dell’Ex Aurum di Pescara, poi migrata presso la Fondazione “Le Stelline” di Milano e infine rientrata nel 2020 a Teramo, in un legame ideale che unisce l’Abruzzo alla Lombardia nel segno del movimento naïf e che accomuna una donna placida e stanziale a uomini tormentati e nomadi, quali Antonio Ligabue, o lo stesso Doganiere.
Come e Perché sono questioni più complesse, che ci poniamo quando qualcosa di anomalo — come sempre è la vera arte — stravolge il nostro quotidiano, aprendoci nuove prospettive, risvegliando necessità latenti. Nel mio caso, quella di ritrovare un tempo diverso: contemplativo, creativo, non “produttivo”, scevro da impegni e doveri e dalla spasmodica, infruttuosa, pretestuosa ricerca di… tempo.
(Volevi più tempo? Eccoti il Covid, il lockdown, la noia noia noia.)
Guardando i quadri di Annunziata Scipione si viene risucchiati, rapiti in una dimensione in cui il tempo lo si trovava per tutto: nel suo caso, per essere donna, moglie, madre, artista e contadina.
— Come sarebbe a dire, “artista e contadina”?
Reset. Start again.
Il 24 marzo 1928, in una sperduta contrada delle campagne abruzzesi, nasce una donna dal nome religioso e dal cognome guerriero, che lascerà un segno profondo nell’arte naïf nazionale e internazionale: Annunziata Scipione.
Contrada Camerale, presso Azzinano di Tossicia in provincia di Teramo, è identica a tante altre frazioni contadine tra le due guerre: ambiente povero e umile, in cui il destino domestico di una bambina come Annunziata sembrerebbe scontato; ma lei ha dentro di sé un fuoco*, che la spinge sin da piccolissima a usare le mani e l’ingegno per urgenze diverse dalle faccende domestiche, dal lavoro nei campi e dalla cura degli animali:
«Ho cominciato molto presto, da bambina, a lavorare della terra con l’acqua per farne delle figurine, o a usare pezzi di carbone per tracciare disegni sui muri, sulle porte delle stalle, o dove capitava (…) mentre stavo con le pecore modellavo di nascosto pupazzetti di terra e acqua, ma quando si seccavano si sbriciolavano tutti… andavo anche nel bosco per vedere se riuscivo a trovare qualche bel ramo, e intagliavo testine nel legno. Ma andava tutto perso…»
Sono le sue prime transitorie, frustranti esperienze artistiche, in cui la terra alla quale dà forma torna a mescolarsi con la terra in cui vive un quotidiano di fatica e, allo stesso tempo, di meraviglia. Per molti anni, Annunziata continuerà a sperimentare per proprio conto, restando agli occhi di tutti una semplice contadina, casalinga, moglie e madre, celando i risultati del suo “tempo dell’arte”, perché:
«ai miei tempi, le donne dovevano stare a casa a fare la calzetta, ma io invece volevo fare quello».
Priva di istruzione canonica (studia fino alla terza elementare e poi basta, ché in campagna tutti devono contribuire a sfamare la numerosa famiglia) e di qualsiasi rudimento artistico, non è quindi tra i banchi di scuola che Annunziata apprende a fare arte; ma dall’ambiente in cui vive, animato da rituali laici (la vendemmia, la raccolta delle olive, la mietitura, il mercato, la fiera) e religiosi (le processioni, le feste del santo patrono, la messa), bestie, colture e paesaggi dei quali lei assorbe e restituisce la bellezza, riproducendola con ogni mezzo alla sua portata: argilla e legno, cartone e carbone, e più avanti i colori che trova nell’astuccio di suo figlio:
«Ho cominciato così, senza sapere bene cosa stessi facendo. Mi veniva facile, naturale riprodurre quello che vedevo. Disegnavo e dipingevo a memoria: non avevo bisogno di vederle le cose, sapevo come erano fatte (…) Solo nel 1968 ho cominciato a conservare le sculture. Intagliavo dei pezzi di legno di scarto, che mio marito prendeva in falegnameria per la stufa… a dipingere veramente ho iniziato nel 1972.»
Sempre senza alcuna nozione tecnica di base, utilizzerà anche i colori a olio e gli acrilici:
«non li sapevo usare, non me l’ha insegnato nessuno; ho imparato da sola.»
Altro che uso della prospettiva e nozioni accademiche di anatomia. La Scipione ha una conoscenza immediata, non mediata dalla cultura, delle forme e delle sostanze del mondo che la circonda. Lo conosce perché ne è parte integrante e lo vive quotidianamente, in tutta la sua materialità: la minaccia latente delle zampe delle vacche durante la mungitura, il latrare e lo scodinzolare dei cani, la stolida mitezza delle pecore, il chiocciare delle galline, l’egoistica invadenza dei gatti, la puzza del letame, l’afrore della mietitura, il respiro quieto della sera… un brulicare di vita agro-campestre che fa tutt’uno con quella degli uomini e delle donne che strappano alla terra il necessario per il proprio sostentamento, ma che, come scrive Aldo Busi, “oltre a lavorare cinquanta ore a settimana, a sudare sotto il sole, a essere schiavizzati come mezzadri, trovavano anche il tempo per organizzare balli sull’aia, lotte contadine e sindacali”**.
“Non ho tempo, oggi si corre troppo, si corre sempre”, è la frase fatta con cui fino a un anno fa ci assolvevamo a vicenda, giustificando la nostra pigrizia mentale, prima che fisica. Una pigrizia che Annunziata — per sua e nostra fortuna — non ha mai conosciuto.
Continua imperterrita ad alimentare quel suo fuoco interiore, stando sempre attenta a non farsi scoprire, perché in quanto donna non le sarebbero concesse altre arti se non quelle cosiddette “minori”, sconfinanti nell’artigianato: la cucina, il taglio e cucito, il ricamo, l’uncinetto, il lavoro a maglia… “la stragrande maggioranza delle donne ai tempi di Annunziata non vanno oltre la licenza elementare, e quelle poche che possono permettersi di continuare a studiare non vengono ancora ammesse nelle Accademie di Belle Arti”***, ci ricorda Silvia Pegoraro.
Scolpisce e disegna per se stessa, per necessità interiore, nel silenzio, nei ritagli di tempo:
«Non era facile trovare il tempo… Si doveva lavorare la campagna. Dalla mattina alla sera. Cogliere le olive. Mietere il grano. Andare con le pecore. Eravamo sette figli, uno maschio e tutte femmine. E il maschio non c’era quasi mai perché veniva richiamato in guerra. Lo facevo di nascosto».
Così facendo, accumula un corpus impressionante di opere che nasconde qua e là, senza ricevere né cercare altra ricompensa o riconoscimento che la propria soddisfazione:
«mettevo il cavalletto vicino alla pentola mentre cucinavo, così potevo vedere come veniva…» finché, a un certo punto, la sua passione segreta viene scoperta dal marito.
Immaginate quest’uomo, Ettore Di Pasquale: capomastro in un’impresa edile, felicemente sposato a una tranquilla, operosa massaia, d’un tratto si rende conto che sua moglie ha un fuoco dentro: neanche il matrimonio e la maternità l’hanno spento. La reazione più comune a quei tempi sarebbe stata come minimo un: “Chi stì ffa? Sì pazze?”
Pensate ora al primo marito di Alda Merini, e alla sua reazione davanti a una moglie poetessa. Con un consorte simile, anche Annunziata correrebbe il rischio di finire in manicomio — come la stessa Alda, come Ligabue e Van Gogh ai quali verrà spesso paragonata: all’epoca ce n’è uno nella vicina Teramo (chiuderà nel 1998), la legge Basaglia è ancora lontana. Che fa dunque quest’uomo, che ha scoperto di avere una moglie così?
Ettore potrebbe ostacolarla, rimproverarla, deriderla o minacciarla, invece fa l’unica cosa sensata da fare: la incoraggia e la sostiene. Non è pazza sua moglie, è “solo” un’artista; inoltre, fare arte non le ha impedito di trovare il tempo per fare tutto il resto: non ha grilli per la testa, non se la crede, non se la tira…”nun s’ha muntàte la còcce”, come diciamo noi abruzzesi.
In questo, Annunziata Scipione è decisamente più fortunata rispetto a Van Gogh, Ligabue, Merini, Plath, Sexton e tanti altri “malati di arte”: ha infatti dalla sua una mente tanto geniale quanto semplice, un carattere mite e affabile che la spinge a non prendersi mai troppo sul serio, pur mantenendo quell’ostinazione che la porta a dipingere addirittura alla rovescia, accoccolata su una seggiolina di paglia.
Da marito a complice: un capomastro ha tante conoscenze, contatti con uomini che, di arte, “ci capiscono”… Ettore Di Pasquale li porta a casa da sua moglie, dalle sue opere accatastate l’una sull’altra, in un meraviglioso cumulo di colori e forme primordiali.
Stupore. Incredulità. Celebrità a raccolta intorno al suo focolare. Giancarlo Giannini acquista il primo quadro a olio della Scipione, Cesare Zavattini ne loda la “fondamentale dialettalità che (…) ha il valore di una lingua creata”. Riusciamo a immaginarceli, quei primi intenditori alle prese con l’inspiegabile, con l’Arte sbocciata in una minuscola frazione contadina dell’Abruzzo interno, e un po’ ci viene da ridere, come ad Annunziata:
«Quando ho conosciuto i primi critici, sentirli paragonarmi a Van Gogh mi faceva ridere: non ero io, quella.»
- Artista, io?
In quanti, in quante ce lo chiediamo, sminuendo le nostre capacità, soffocando il nostro fuoco interiore? Ci tarpiamo le ali, non ritenendoci degni di “sedere al tavolo della conoscenza”, come scrive Lidia Yuknavitch, quando invece “the radiance falls on all of us”****: la pulsione creativa ci anima tutti e, come Annunziata, dovremmo assecondarla il più spesso possibile, a prescindere dai riconoscimenti, senza aspettarci permessi o legittimazioni, solo per il piacere di farla — un piacere che è in se stesso ricompensa.
Abituati come siamo ai like dei social, assetati di consensi per ogni nostro rigurgito pseudo-creativo, ci perdiamo il piacere dell’arte per l’arte: abbiamo sempre bisogno di un pubblico, di qualcuno che ci dica che “noi valiamo”, come da cosmetica pubblicità. Che schiavitù, che sfiga.
La vicenda umana ed artistica di Annunziata Scipione, vissuta in un’epoca in cui la community non ha ancora soppiantato la comunità, rappresenta ancora oggi un faro e uno sprone per tutti noi nevrotici “creativi” privi di costanza, coraggio e gioia. Lei infatti concede spazio e tempo alla sua voglia di fare arte, non la censura, non si fa domande; semplicemente la lascia fluire attraverso di sé, e a chi insisterà sui dettagli tecnici risponde:
«Nessuna tecnica, no. E non ho mai disegnato il soggetto prima di dipingere. Ho sempre iniziato subito con il pennello, direttamente. Una volta si andava a scuola con una borsa di pezza fatta da noi stessi e forse un foglietto. Non c’erano neanche le matite.»
Grazie al rapido passaparola della critica, la Scipione — al contrario di molti artisti illustri ai quali viene spesso paragonata — ottiene riconoscimenti e premi quando ha ancora davanti a sé tanta vita da vivere: espone in importanti rassegne nazionali e internazionali, i suoi quadri (“Pellegrinaggio a Roma” e “I taglialegna all’Angelus”) vengono scelti per celebrare l’Anno Santo 1983–84, riprodotti sui francobolli, esposti negli uffici postali di tutta Italia, e la sua casa-museo diviene meta delle Giornate del FAI.
L’uscita dall’anonimato non ne modifica l’indole né le abitudini: resta ben salda nella sua vita quotidiana di casalinga, contadina, moglie, madre e poi nonna; da artista, continua a sperimentare, utilizzando tecniche e materiali diversi, senza chiedersi Chi me lo fa fare, Che senso ha, senza cercare consensi. Il mondo là fuori può lodarla o criticarla, per lei non fa alcuna differenza:
«Non disegnavo certo per produrre dei quadri, delle “opere”, ma perché era una mia necessità interiore, qualcosa che mi usciva spontaneamente, in qualsiasi momento. Ancor oggi, mi alzo anche di notte a disegnare, a fare qualche bozzetto per fissare un’idea che mi appare in testa.»
E al giornalista che l’incalza:
- Che pensa del suo talento? Si è chiesta da dove nasce?, risponde:
«Non saprei dirlo, è venuto da sé.»
- Che direbbe a chi ha un talento come il suo?
«Di non lasciare, di continuare. Potrebbe diventare una cosa vera, come è successo a me senza quasi essermene accorta.»
Ha quarant’anni la Scipione quando il suo talento diventa “una cosa vera”, svelandosi al pubblico: late bloomer a tutti gli effetti, diremmo noi acculturati disincantati, avvezzi ad usare anglismi per indicare una fioritura artistica tardiva ma bella, quanto bella.
E belli sono i suoi quadri e le sue sculture, belli senza compromessi, saturi di colori forti, vivaci, accostati con audacia; di forme esagerate e corpose, di dettagli rivelatori e poetici che ci raccontano le vite di uomini e donne belli non nel senso classico nel termine, belli perché veri: sereni, assorti, stanchi, arrabbiati o allegri, la pelle cotta dal sole, le maniche della camicia corciate, il fazzoletto in testa o al collo ad assorbire il sudore, le gonne arrotolate sui fianchi a non ostacolare il lavoro, in un muto dialogo con la terra e gli animali. Uomini e donne dal robusto appetito e dalla grande sete, allo stesso tempo spontanei e sfrontati, dignitosi e pudichi; Annunziata ce li mostra anche quando smettono i panni del lavoro e indossano il vestito buono, lo scialle e il velo per andare in chiesa, quando si tolgono il cappello e si fanno il segno della croce davanti alle statue delle Madonne e dei santi in processione.
Un paradiso perduto e terrestre che ci arriva intatto in un’Opera-canto polifonico che continua a stupirci, risuonando dell’esempio di un’artista che, fino alla sua morte (avvenuta ad Azzinano di Tossicia nel 2018) ha sempre trovato il tempo per alimentare il suo fuoco creatore, lasciandoci in eredità un’ultima, sonora lezione: che se esiste un tempo che sia, allo stesso tempo, rubato e guadagnato, è quello dell’arte; com’è quello dell’amore.
NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE
* Cfr. “Il fuoco della terra”, l’ultima rassegna itinerante dedicata all’artista (Ex Aurum — Pescara, Fondazione “Le Stelline” — Milano, Palazzo Melatino — Teramo, 2019–2020).
** Aldo Busi, Manuale della perfetta Gentildonna, Sperling & Kupfer, 1994.
*** AA.VV., Annunziata Scipione. Il fuoco della terra, Opere 1968/2016, Edizioni Palumbi, Teramo 2019, pp. 367.
****Lidia Yuknavitch, The Misfit’s Manifesto, TED Books/Simon & Schuster, 2017.
ICONOGRAFIA E SITOGRAFIA
https://www.cmgransasso.it/centrodocumentale/le_popolazioni/annunziata_scipione/le_opere.htm
http://www.storieabruzzesi.it/2013/06/07/la-mia-vita-contadina-dipinta-e-scolpita-nel-cuore/
http://portalecultura.egov.regione.abruzzo.it/abruzzocultura/loadcard.do?id_card=115295&force=1