Lo Zen e l’arte della perdita

Franca Di Muzio
17 min readOct 13, 2017

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Robert Liberty Southam, 23 marzo 2017 — Robert Maynard Pirsig, 24 aprile 2017

La scorsa primavera, a distanza di un mese l’uno dall’altro, ho detto addio a due Robert molto importanti della mia vita. Uno inglese, l’altro americano. Entrambi scrittori, pur se a diversi livelli di notorietà. Due esseri umani straordinari.

Il primo Robert in ordine cronologico, il “mio”, quello che ho conosciuto personalmente, se n’è andato il 23 marzo. Robert Liberty Southam: un secondo nome importante e imbarazzante, datogli dal padre profugo russo emigrato in Inghilterra. Questo me lo raccontò, insieme a tante altre cose, nel corso della nostra amicizia così particolare. Quella che può esserci solo tra due anime affini, due Bilance (qualcosa di vero negli oroscopi ci sarà!?) che si riconoscono, e a dispetto delle barriere anagrafiche e geografiche provano piacere nello stare insieme e nel condividere momenti di vita.

Quando internet e i voli low cost ancora non esistevano, quando ero una molto matricola universitaria di Lingue e paventavo l’avvicinarsi del mio primo esame orale, con gli assistenti madrelingua pronti a distinguere chi tra noi aveva fatto una full immersion nella lingua d’Albione e chi no, iniziai a guardarmi intorno a caccia di corsi estivi in Inghilterra.

Nella bacheca studenti del Dipartimento di Inglese trovai appiccato un depliant color seppia: castello da fantasmi in lontananza, vertiginose guglie e orride gargoyles oxfordiane in primo piano. Su tutte, un misterioso acronimo: ESSALO, che a uno sguardo più attento si rivelò molto invitante: European Summer School of Arts and Languages at Oxford.

Arts and Languages! Non sembrava il solito ingessato corso di grammatica. Il paradiso, per un’aspirante “artista” come me.

Artista, non si sa poi bene in quale disciplina: pur diplomata con il massimo dei voti all’Istituto d’Arte, avevo abbandonato i fogli Fabriano le matite Koh-i-noor 2B i pennelli le lastre calcografiche e i caratteri tipografici per iscrivermi, molto illogicamente, a… Lingue, appunto.

Certo, l’Accademia di belle Arti a Pescara non c’era, e i miei non potevano permettersi di mandarmi a studiare fuori; ma, volendolo davvero… esistevano anche all’epoca, le borse di studio. In fondo in fondo, non mi ci vedevo con i pennelli in mano per tutta la vita. Cosa volevo allora? Continuare a fare quello che già facevo: leggere, leggere, leggere letteratura; e scrivere, anche se non sapevo ancora di preciso cosa. Avevo bisogno di spaziare, sconfinare, scelsi perciò di specializzarmi in Inglese e Russo — nell’epoca della perestrojka e della glasnost gorbacioviane, considerata la lingua del futuro, il sol dell’avvenir!

Tornando all’inglese, del primo libro che lessi in lingua originale (“Jane Eyre” di Charlotte Bronte: non proprio l’ideale per una absolute beginner) capii pochissimo. Il mio lessico era ancora troppo limitato, per non parlare del mio parlato: un corso estivo all’estero, mi ci voleva proprio. Contattai perciò la ESSALO, sbrigai le necessarie pratiche e, nell’agosto del 1989, salii sul mio primo volo (Alitalia) e atterrai a Heathrow, dove un dinoccolato insegnante inglese mi stava aspettando per accompagnarmi a Oxford.

- Are you Franca?

- Yes! Are you, Robert?

- No, you’ll meet him tomorrow. Let’s go get your luggage now.

- ??

- !

Robert lo incontrai il giorno dopo, indaffarato con una cinepresa su un immenso prato ovviamente all’inglese, circondato da allievi di svariate nazionalità europee: spettinatissimo, scamiciato, magro, alto, gentile e anche, così mi parve, spiritoso: mi riservò una strizzata d’occhi e di fossette, una rapida cordiale stretta di mano e se ne tornò a dirigere l’orchestra della ESSALO.

Saper dirigere è un’arte

Capivo davvero molto poco di quello che diceva, ma il suo sorriso mi incuriosì e rassicurò all’istante, mettendomi addosso una gran voglia di conoscerlo.

Come ogni vero tutor che si rispetti, prima dell’inizio delle lezioni vere e proprie Robert si premurò di passare un po’ di tempo con ciascuno di noi, individualmente; così, nel corso di una mattinata a spasso per Oxford, in un inglese molto lento e molto indulgente mi raccontò delle sue molteplici attività: insegnava all’università di Oxford, letteratura. Faceva anche l’attore — alla radio, a teatro. Andava in tour con la sua compagnia. Scriveva.

Durante l’estate, dirigeva questa scuola così particolare, diversa, atipica (amavo già allora le cose particolari, diverse, atipiche). ESSALO… Arts and Languages: teatro, danza, musica, cinema; ognuno di noi poteva iscriversi al suo corso preferito. E le lingue? Semplice, i corsi erano in lingua. Oh. My. God.

“Ma chi ce l’ha fatto fare…?”

Non solo. Prima iniziare il corso prescelto, c’era da superare un provino.

Come, “provino”?

Sei un artista, ti senti tale? Allora buttati, abbi il coraggio di te, fallo, Just do it! Yes, ti tocca fare un provino nella disciplina prescelta.

A dirigere dietro una cinepresa, manovrare un dolly, tagliare e montare fotogrammi non mi ci vedevo.

A ballare neanche, nonostante gli anni infantili e adolescenziali spesi a scuola di danza classica e moderna.

Per suonare decentemente, ormai era troppo tardi — avevo interrotto alle medie lo studio del pianoforte…

Scelsi Teatro.

Al provino-audizione portai un brano di Lorenzo il Magnifico, “Trionfo di Bacco ed Arianna”: Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia…! Fingendo una giovinezza, un’espansività e una disinvoltura che non sentivo, salii su un palco di un teatro di provincia e recitai il Magnifico poemetto. Da cani. Quale stupore quando Robert mi assegnò una piccola, dignitosa particina di servetta nella pièce che stava allestendo con gli altri allievi teatranti!

Passai agosto parlando inglese, mangiando inglese, sognando in inglese, recitando in inglese e, al ritorno all’università, andai un filino più serena a fare il mio esame orale. L’assistente madrelingua mi diede un onesto 23; aggiungendo la parte di letteratura (Da “Beowulf” a Shakespeare, più svariati autori vittoriani misconosciuti) alzai il voto fino a 28.

Contenta, Franca? Oh yes. Però… sentivo che quell’utile esperienza estiva non poteva, non doveva finire lì.

Scrissi a Robert, apparentemente per informarlo dell’esito dell’esame e ringraziarlo dei suoi insegnamenti, in realtà cercando improbabili appigli per proseguire la nostra conoscenza. Pur avendoci parlato poco durante il soggiorno a Oxford, quel poco mi era bastato a sentire che era una persona singolare, a suo modo importante per me, anche se non sapevo ancora in che modo; una persona che volevo conoscere meglio e da cui farmi conoscere meglio, se me lo avesse permesso.

Mi rispose, disponibile e gentile, e iniziammo la nostra corrispondenza.

Ogni sua lettera per me era una festa. Fitta di righe inclinate in una grafia elegante, spumeggiante di descrizioni argute, racconti di viaggio e tour teatrali, modi di dire che mandavo a memoria, incoraggiamenti maestro-allievo, e — cosa per me davvero incredibile — genuina curiosità e interesse per quest’italiana dall’inglese imperfetto e dalle confuse aspirazioni artistiche.

Dizionario bilingue alla mano, brutta copia dopo brutta copia, cercavo le parole più esatte e adatte per raccontargli meglio che potevo (a lui, che il mondo girava da tempo in lungo e in largo) del mio piccolo mondo: i miei esami, i miei genitori, i miei passatempi, il mio quartiere.

A un certo punto, gli chiesi perfino consiglio per l’argomento della mia tesi: Athol Fugard!, rispose lui, facendomi scoprire le opere di un drammaturgo sudafricano allora misconosciuto, che il mio relatore però troppo pigramente rifiutò; al che Robert imprecò in un pesantissimo inglese contro gli accademici (lui stesso lo era), esortandomi a finire l’università prima che potevo e ad andarmene da lì. E, last but not least, a leggere un libro importante, che secondo lui mi avrebbe aiutata a trovare la mia strada. Un libro dal titolo strano, enigmatico:

Zen and the Art of Motorcycle Maintenance, in italiano Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, dell’americano Robert M. (Maynard) Pirsig.

Il secondo Robert della mia vita, il Robert “di tutti”: l’americano, che avrei conosciuto non di persona, ma attraverso la lettura.

Zen?

Motocicletta??

Pirsig?! Che razza di cognome… anche lui, come il “mio” Robert, figlio di emigrati.

Ma soprattutto: che c’entravo, io, con lo Zen e le motociclette? Come mai Robert pensava che mi sarebbe stato utile, un libro del genere?

Smisi di farmi domande e lo comprai. Lo lessi una prima volta, con tutta l’attenzione e l’aspettativa che riserviamo a chi ci ha detto che quella cosa, quella storia è importante per noi, fìdati…. e rimasi a galleggiare sulla superficie della storia, perplessa, cieca ai suoi strati più profondi e complessi. Proprio non capivo, cosa avesse da dire a me quel libro.

Lo riposi accanto ai suoi simili, con la speranza che forse, più avanti, rileggendolo con meno aspettative e maggiore maturità, ne avrei capito il senso: d’altra parte, non è così che si fa anche con altre cose importanti della vita?

Nel frattempo, continuavo a scrivere al “mio” Robert, raccontandogli del primo grande amore, dei primi lavoretti tra insegnamento e editoria; e quando mi rispose che aveva in programma un viaggio in Italia, mi lanciai e con grande entusiasmo lo invitai a casa e lui… accettò.

Euforia.

Incredulità.

Ansia.

Ma che, davvero hai invitato a casa tua a real English gentleman? Oh-oh. Adesso ti tocca parlare inglese per davvero, Franca.

Compulsai allora una discreta mole di grammatiche inglesi, prontuari di conversazione e libretti densi di idioms angloamericani; sospesa tra paura e desiderio, famelica curiosità e senso di inadeguatezza, da brava Bilancia oscillavo tra ma che bello che viene a trovarmi!, e il ma chi me l’ha fatto fare?, in una sfinente lotta interiore che si placò di botto quando ci incontrammo a Roma Termini, agli inizi di un caldo ottobre.

Ci arrivai in treno, lui a bordo di una vistosa jeep presa a noleggio; saluti e abbracci disorientati, nessuno di noi due capiva bene quello che stava facendo, credo. Ripartenza immediata e maldestra in due sulla jeep: lui per la scarsa conoscenza dell’italiano, io per lo scarso senso dell’orientamento, sbagliammo strada varie volte, perdendoci nei meandri del raccordo anulare e andando alla deriva nelle periferie malfamate della capitale prima di imbroccare finalmente, a notte fonda, la via del ritorno a Pescara. E fu durante quel viaggio in autostrada, senza dizionari fitti di parole, facendo appello al mio inglese, al suo spagnolo e soprattutto alla grande, reciproca voglia di comunicare, che rompemmo davvero il ghiaccio e che la nostra corrispondenza iniziò ad assomigliare a un’amicizia.

Robert mi aveva portato in regalo un libro d’arte su Gustav Klimt, all’epoca il mio pittore preferito; più una bottiglia di non ricordo cosa per mia madre e una stecca di sigarette Rothmans per mio padre (che non fumava da anni, ma gradì comunque). Rimase con noi una settimana, dormendo saporiti sonni nella mia cameretta, gustando i piatti preparati da mia madre, parlando a gesti e scambiando grandi, imbarazzati sorrisi con mio padre. Io ero al settimo cielo: Robert L. Southam da Oxford, a casa mia!

Ogni mattina schizzavo su dal divano e gli preparavo la colazione; subito dopo, passavamo sotto il fuoco incrociato della curiosità dei miei vicini che se ne stavano appollaiati su panchine e balconi a guatarci come avvoltoi, chiedendosi cosa mai ci facesse un inglese palesemente adulto con me, giovine donzella; li salutavamo, ridendo di gusto del loro sconcerto, salivamo sulla mia Panda e lo portavo in giro nella mia città, al mare, nei dintorni, parlando, facendo foto, parlando, passeggiando, parlando.

Di cosa parlavamo? Di tutto. Era così facile, così piacevole parlare con lui. Anche il mio inglese, scorreva. Non dovevo fare altro che essere me stessa.

Ripartì, tra sorrisi e lacrime. Corroborati da quell’unica settimana insieme, continuammo a scriverci. Gli raccontai del mio nuovo lavoretto, profondendomi in dettagli grotteschi sul mio capo — personaggio davvero dickensiano. Robert mi rispose a stretto giro, esilarato e incoraggiante: “If you can describe him so well in English, you should be able to do wonders in Italian”.

Hmmmm. Me, writing? Io, scrivere? Oh sì, magari! Ma anche… no. No. Ho altre cose da fare io, per la scrittura c’è sempre tempo, la scrittura può aspettare.

Avevo un senso tutto mio e tutto sballato delle priorità, all’epoca. E, ovviamente, una strizza tremenda.

L’anno seguente, all’inizio dell’estate, anche il mio secondo grande amore finì; in una lettera macchiata di lacrime, inoltrai a Robert tutto il mio dolore. Mi rispose a stretto giro, invitandomi a raggiungerlo in Grecia, sull’isola di Skiathos: Getting away for a while will be good for you.

Aveva già comprato i biglietti e prenotato un breve soggiorno; dovevo solo dire di sì, andare a Fiumicino al desk della Olympic Airlines e prendere il volo per Atene: ci saremmo incontrati lì, all’aeroporto.

Sbalordita dalla sua generosità e con una gran voglia di distrarre il mio cuore spezzato, piantai in asso lavoro-lavoretto, capo-capetto e partii d’amblè, mettendo in valigia, insieme al costume, anche il famoso libro motociclistico-zen di Robert M. Pirsig. Magari stavolta, rileggendolo con più calma e attenzione, ci avrei capito qualcosa.

Hmmm. In effetti, le sue semplici ma oscure parole stavolta mi colpivano più a fondo, simpatizzando con la mia sofferenza per la storia finita, la mia voglia di guardare oltre, anche se non sapevo… dove! Per la prima volta, mi pareva non dico di capirlo, Pirsig, ma di sentirlo: intravvedevo dei lampi, delle intuizioni, delle verità nascoste sfrecciarmi davanti come meteore, ma prima che riuscissi a coglierle del tutto, sparivano. Alla fine misi il libro da parte e pensai solo a godermi la vacanza.

Skiathos a inizio maggio era bellissima e semideserta di turisti, l’acqua cristallina e gelida dell’Egeo fitta di meduse feroci e sanguinarie, i monasteri molto ortodossi, i cani molto randagi, i monelli locali molto impertinenti, le insalate molto greche, la retsina e l’ouzo molto graditi a Robert; ma la mia anima continuava a sanguinare, la bellezza dei luoghi acuiva il mio senso di vuoto, fallimento e ineluttabilità.

- What are you thinking about, Franca?

- I’m thinking about my love in ruins, risposi, Penso al mio amore in rovina, ricorrendo a una metafora ispiratami dalle antichità del luogo. Ah, come mi sentivo triste e poetica!

- Perhaps now you can start thinking about new ruins, suggerì Robert sorridendomi a tutte fossette, ma con lo sguardo serio. Forse adesso puoi iniziare a pensare a nuove rovine.

Fu l’unica volta in cui mi venne il sospetto che Robert ci stesse provando.

tentazioni greche

Passeggiando una sera tra le casupole imbiancate di Skiathos, trovai il coraggio di dirgli quanto mi avessero fatto piacere le sue parole di apprezzamento per la mia capacità di scrivere e raccontare. Ah, quanto mi sarebbe piaciuto, scrivere… se solo avessi potuto farlo!

- Just do it, Franca!, mi rispose lui, insolitamente telegrafico.

- Come dici, Robert? Io, scrivere? Me, writing?

- Yes, you! Just do it. Fallo, fallo e basta.

Di quella vacanza greca questa sua esortazione è il ricordo più vivido, insieme ad alcune foto che Robert mi scattò; foto che solo chi ti vuole molto bene sa farti, anche se tu in quel momento ti vuoi piuttosto male; foto in cui scopri lati di te verso i quali, fino a quel momento, eri stata cieca.

Un’adriatica sull’Egeo

Rientrata a Pescara, rubai a mia cugina una Olivetti Lettera 22 ancora in discreta forma e iniziai.

La prima cosa che scrissi per mandarla a un concorso — dopo infiniti, assordanti pestoni sui tasti della Olivetti — fu la sceneggiatura di un cortometraggio. Ovviamente non avevo mai scritto una sceneggiatura prima di allora, ma mi nacque così, perciò la scrissi e basta. Just do it.

Mi valse un viaggio a Roma, con relativo invito alla Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, e la pubblicazione di un estratto del mio “corto” nel loro catalogo.

Intimorita oltre misura da quel mio primo “successo”, smisi del tutto o quasi di scrivere per ben dieci anni. Tanti mi ce ne sarebbero voluti prima di ritrovare il coraggio di mandare dei racconti, vederli pubblicati, vincere altri premi, definirmi autrice se non — addirittura — scrittrice.

Evidentemente non avevo ancora interiorizzato la frase di Robert, ancora non l’avevo fatta mia.

Just do it. Fallo (e basta).

E questo, molto prima che Just do it diventasse l’acclamato claim della Nike.

Nel frattempo, continuavo ancora ad inciampare nelle parole di Robert M. Pirsig; le rilessi di nuovo, non so quante volte. Iniziai a fare le orecchie al libro, per ritrovare al primo colpo frasi come questa:

La vera motocicletta a cui state lavorando è una moto che si chiama “voi stessi”. La macchina che sembra “là fuori” e la persona che sembra “qui dentro” non sono separate. Crescono insieme verso la Qualità o insieme se ne allontanano.

Qualità. Della vita, della scrittura. Il senso, o il non senso, dell’universo, della vita. Pirsig quasi ci uscì pazzo, appresso a queste questioni. Finì in manicomio, fu sottoposto a elettroshock, si riprese. Il suo manoscritto fu respinto da 121 (121!) case editrici prima di diventare un best seller, un libro di culto, un caso letterario mondiale, un film. Suo figlio, coprotagonista del libro, morì a poco più di vent’anni, accoltellato da un pazzo mentre camminava nel campus dell’università; anche a questo non senso, Pirsig sopravvisse. Ebbe un’altra figlia, scrisse un altro libro.

E TU ancora hai il coraggio di scoraggiarti perché i tuoi scritti, le tue scritture restano ignote e ignorate?

Just do it, Franca.

Robert era sempre felice per i miei piccoli grandi traguardi, letterari e di vita. Da parte sua, continuava a viaggiare tanto, soprattutto nel sud del mondo, a fare teatro, a registrare radiodrammi, audiolibri; a fare tanta beneficenza, e a scrivere. Due romanzi densi di umanità e attenzione agli “ultimi”, tra ambientazioni suburbane ed esotiche: Aisha’s Jihad e The Snake and the Condor.

L’impegno sociale di Robert diventò anche gesto politico quando, profondamente disgustato dall’impegno militare inglese in Iraq, decise di trasferirsi a Charlieu, in Francia. Parlava il francese da madrelingua, e alla fine prese anche la cittadinanza. Nel mentre, ci incontrammo di persona altre due volte, in Italia: prima a Rovigo, quando era in tour con la sua compagnia teatrale, poi a Bologna, dove nel frattempo avevo iniziato a lavorare sul serio e potei ospitarlo di nuovo. Lui con nuovi progetti e una nuova lunga barba a ornargli il mento, rendendolo ancora di più autoironico e, allo stesso tempo, autorevole; io con una nuova e più matura percezione di me. Ma sempre, l’uno per l’altra, con la stessa gioia e spontaneità, stupore e gratitudine. Sempre con la stessa sollecitudine, la stessa premura, cura, curiosità: l’uno per l’altra.

Di anno in anno, passammo alle email. Ogni tanto però lui tornava all’amata carta; soprattutto, amava le cartoline. Me le mandava da posti lontanissimi, fittissime di racconti di viaggio; a volte le chiudeva in una busta e ci aggiungeva anche qualche foto. Le appendevo al mio frigorifero come magneti — e in effetti lo erano; assorbivo il loro esotismo e il loro affetto: Robert mi aveva pensata, anche da lì.

Gli rispondevo raccontandogli (troppo spesso) quanto fosse dura la vita da precaria in Italia, di non sapere che pesci pigliare, e che disperavo di riuscire a fare qualcosa di buono della mia vita, e lui continuava a spronarmi: Just do it, vai, fai, buttati; abbi fede, non ansia.

Riecheggiava le parole dell’altro Robert, l’americano:

L’ansietà… è in qualche modo l’opposto dell’ego. Siete talmente sicuri di sbagliare che non osate muovere un dito. Spesso è proprio questa, e non la “pigrizia”, la vera ragione per cui è tanto difficile incominciare qualcosa. La trappola dell’ansietà può condurre ad ogni tipo di errore per eccesso di zelo. Aggiustate cose che non hanno bisogno di essere aggiustate e vi agitate per guai immaginari.

Il modo migliore per spezzare questo circolo vizioso credo sia quello di dar sfogo alle vostre ansie sulla carta.

Dovreste ricordare che cercate la pace della mente, e non soltanto di riparare la moto.

Potete anche ridurre l’ansietà pensando che tutti i meccanici sbagliano una volta o l’altra… quando siete voi a sbagliare, c’è per lo meno il vantaggio che imparate qualcosa.

Robert, la persona meno ansiosa che abbia mai conosciuto. Sempre aperto, generoso, disponibile, pronto alla vita e a battersi per viverla fino in fondo. Fino a che punto, lo scoprii due anni fa, quando ricevetti da un suo collaboratore la notizia che si era ammalato di cancro. Si stava curando, non poteva scrivermi personalmente al momento, lo avrebbe fatto appena uscito dall’ospedale.

Oh no. No. No, Robert no.

Mi chiusi in un silenzio denso di speranza e di preghiere.

Mi riscrisse dopo qualche mese, una mail piena di vita progetti speranza voglia di lottare e di incoraggiamento per me, per le mie lotte. Nonostante la distanza, nonostante la sua malattia, riuscì a farmi sentire la sua vicinanza anche durante la malattia e la morte di mio padre. Il vero affetto non conosce confini.

Mi spedì i suoi libri. Gli spedii il mio. Mi diede il link al suo sito, ci ritrovammo su Twitter. Ci scrivemmo ancora, lui aggiornandomi sulla sua salute. Il cancro era in remissione, poteva godersi l’estate nella sua casa in Francia! Il cancro era tornato, ma era pronto ad affrontarlo con una nuova terapia, sperimentale, nel miglior ospedale di Londra.

Di arrendersi, Robert non ci pensava proprio: celebrava invece ogni giorno di vita che gli restava, viveva il presente e si proiettava nel futuro.

A un certo punto mi raccontò, felice come un bambino, della grande festa a sorpresa che gli avevano organizzato per il suo settantesimo compleanno, riunendo i suoi amici delle scuole elementari. Settant’anni? Nah. Mi pare ieri, che te ne stavi ritto in quel prato all’inglese, magro e atletico, la cinepresa in mano. Caro, dolce, unico Robert.

Immaginarlo vecchio bambino felice tra vecchi bambini felici mi procurava fitte di tenerezza e allegria.

E l’altro Robert, l’americano? Continuava a riposare nella mia libreria. Ogni tanto tornavo e torno a sfogliarlo, a meditarlo. Ancora oggi il suo libro mi fa interrogare e riflettere. Ancora oggi non credo di averlo afferrato, capito del tutto, ma non ho fretta: non basta una vita per capire la vita, e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta parla appunto… di vita. E di morte.

Fine marzo di quest’anno, sull’autobus, occhi sullo smartphone. D’improvviso, compare sul display un messaggio. In inglese. Quest’indirizzo non ce l’ho in rubrica, chi sarà mai?

Dear Franca,

I’m deeply sorry to inform you that…

Una carissima amica di Robert; digito il suo nome su Google e scopro che ha la mia stessa età, dunque per Robert era quasi una figlia, come me. Dal suo letto di morte, lui le aveva parlato della nostra amicizia quasi trentennale, chiedendole di mettersi e anche di restare in contatto con me. Piango sull’autobus davanti a tutti, bagnando lo smartphone: Robert in quei suoi ultimi momenti aveva pensato anche a me, tra i tanti suoi amici, tra le tante persone che lo amavano.

Presto, magari in occasione del suo compleanno, che cade proprio in questi giorni, organizzeranno una commemorazione in suo nome; ovunque sarà, farò di tutto per andarci. Leggerò questo mio scritto, se necessario lo tradurrò, proverò a raccontare cosa ha significato per me conoscerlo.

Il secondo Robert, l’americano, è morto un mese dopo il primo, celebrato dalla scena letteraria internazionale. Appena l’ho saputo, ho agguantato Lo Zen e… l’ho aperto a caso, iniziando dalla fine, quando l’autore si interroga sulla perdita del figlio:

Dov’è andato?”.

Era una persona reale, viva, che occupava un tempo e uno spazio su questo pianeta: e ora, d’un tratto, dov’era finito? Era salito su per la ciminiera del crematorio? Era nella piccola urna piena di ossa che ci avevano restituito? Stava suonando un’arpa d’oro su una nuvola lassù? Nessuna di queste risposte aveva senso.

La domanda da fare era: A che cosa ero così attaccato, io?

E Robert, il “mio” Robert, dov’è adesso? Dove sono tutte le persone che ho amato e perduto? Ma lo sono poi davvero, “perdute”? Come superare questo dolore, questo blocco vitale?

Tornai indietro, all’incirca a metà libro:

Prendete in considerazione che il blocco è destinato a scomparire indipendentemente dagli sforzi che fate (…). La vostra mente punterà naturalmente e liberamente verso una soluzione. Non riuscirete a impedirlo, a meno che non siate dei veri maestri. La paura del blocco non ha senso… quello che realmente vi blocca è il tentativo di fuggire dal blocco: è come se foste su un treno e correste da un vagone all’altro in cerca di una soluzione che è sul vagone di testa.

Non bisognerebbe evitare i blocchi. La comprensione autentica è sempre preceduta da un blocco.

Tutte frasi molto sagge, molto Zen; pure troppo, per una come me. Resta il fatto che Robert ha fatto parte della mia vita terrena per quasi ventott’anni e in qualche modo ne fa parte ancora, esiste, c’è, non ho bisogno di prove per saperlo, non ho bisogno di comprenderlo: lo sento.

Robert.

Liberty.

Southam.

Il “mio” Robert.

Un inglese sull’Adriatico

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Franca Di Muzio

copywriter, ufficio stampa, giornalista, scrittrice... di mare