San Biagio, o della fede immeritata

Franca Di Muzio
9 min readFeb 5, 2018

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Devozione o superstizione?

Sarà stato per nostalgia dell’infanzia; o per assicurarmi una protezione in più dopo un’influenza che mi ha ridotta all’osso; o ancora, per rinnovare una tradizione religiosa-popolare che per tanti anni avevo ignorato; oppure perché, in fondo, certi doni non si possono restituire. Fatto sta che il 3 febbraio, San Biagio, sono uscita di casa a un orario da messa vespertina per entrare nella chiesa del mio quartiere.

Non ci mettevo piede dal funerale di mio padre, tre anni fa. Tre anni in cui ho ignorato il richiamo di altre funzioni, delle campane e delle messe domenicali, a cui pure da bambina e da ragazza partecipavo. Diciamo pure che non me ne perdevo una, anzi spesso raddoppiavo la dose, arrivando anche a due messe per domenica; ma questa assiduità non scaturiva tanto da una devozione particolare, da una ricerca interiore autentica, quanto da influssi esterni di vario genere e peso specifico.

In primo luogo la famiglia, incarnata nelle minacce e nelle aspettative di mia madre, religiosissima, che mi avrebbe rimbrottata all’infinito se mi fossi azzardata a saltare una messa, e nell’esempio di mio padre, palesemente meno bigotto ma — turni di lavoro permettendo — sempre disposto ad infilarsi tra i banchi della chiesa la domenica, e a sopportare stoicamente le interminabili, colpevolizzanti prediche di un prete tanto giovane quanto severo.

Poi c’erano i miei amici e coetanei, che trovavano nella parrocchia l’unico polo di attrazione e riunione, calamitandosi a seconda dell’indole e delle preferenze personali attorno a gruppi e gruppetti dai nomi noti e meno noti: Gruppo Giovani (‘na gioventù davvero bruciata, anzi: spenta), Movimento Eucaristico Giovanile (come sopra), Scout (più dinamici, con le loro adunate e uscite… pure troppo, per i miei gusti), e infine, il Coro.

Avendo già allora un animo artistico ed esibizionistico, pur se celato sotto quantità industriali di timidezza, scelsi di unire la mia voce di contralto a quelle di altri ragazzi e ragazze, sotto la guida di un maestro di canto che, pur trovandola “potente ed intonata”, spesso e volentieri mi rimproverava: “Canta più piano, Franca!, che qua ti senti soltanto tu!”. E con questo mio vocione, domato via via dagli strali del maestro e dallo spirito corale, contribuii ad “animare” (“animare”…, come se la messa avesse bisogno di un supplemento di “anima”: questa cosa, non mi quadrava per niente!) innumerevoli messe domenicali, natalizie, pasquali, infrasettimanali, per la bellezza di dieci anni.

Altarini di quartiere e madonnine nomadi

Dieci anni di processioni, di rosari, di altari decorati in palazzi popolari, di statue di madonnine portate di qua e di là, di messe cantate, di feste santificate, di indulgenze guadagnate grazie all’impegno in un coro che, oltre alle sue funzioni tradizionali, aveva pure ambizioni artistiche: quante sere a provare i canti polifonici in latino, quanti fine settimana di ritiri spirituali, quante esibizioni, in chiesa e fuori, noi femmine con le nostre lunghe divise azzurre ricamate, i maschi più sobri in pantaloni neri e camicia bianca.

La Corale della parrocchia di San Gabriele, al gran completo

A un certo punto, il canto e la divisa non mi bastarono più. Non fu più sufficiente la sensazione di fare una cosa insieme agli altri e di farla bene, di farla per il bene mio, degli altri e per la gloria dei cieli; non sentivo più la soddisfazione di essere parte di una polifonia ben riuscita, di un canto con l’anima, non sentivo più gli applausi dei fedeli, i loro complimenti alla fine di ogni esibizione; nemmeno l’orgoglio dei miei nel vedermi parte integrante e importante di un gruppo della chiesa (io, da sempre allergica ai gruppi), bastò a tenermi nel coro. Iniziata l’università, altri e più piacevoli centri di attrazione e di impegno mi assorbirono tempo ed energie; le sere delle prove di canto, le mattine domenicali delle messe cantate furono rimpiazzate dallo studio, dalle uscite con altre matricole, dal mio primo grande amore: lasciai il coro, e presto anche la pratica della messa domenicale.

Eppure ero battezzata. Comunicata. Cresimata. Corista. ‘Na mezza suora, insomma. Dov’erano finite, tutte quelle tappe, quelle etichette? Superate, dimenticate… possibile che non avessero lasciato traccia in me? E la fede, la mia fede, dov’era finita, cos’era stata? Ma l’avevo mai avuta davvero, una fede? Non era stata piuttosto tutta una finzione, una facciata da sepolcro imbiancato, un obbligo esteriore, un peso imposto che finalmente ero riuscita a scrollarmi di dosso per vivere una vita più autentica, decisamente meno problematica, più moderna, più coerente con le mie azioni e convinzioni, una vita… laica?

Queste e tante altre domande dentro di me, tormentosi interrogativi senza risposta, e quando trovai il coraggio di parlarne con dei sacerdoti, le loro risposte vaghe (“la fede senza dubbi non è una vera fede”; “la fede senza le opere non è una vera fede”, e via negando) non fecero altro che acuire la mia confusione e farmi sentire ancora di più sbagliata. O nel giusto? Mi dicevo, ormai sei grande Franca, abbastanza per prenderti le tue responsabilità e smettere di fingere: quindi, basta messe, basta comunioni, basta confessioni, basta ipocrisie; inutile che dici che sei pentita quando non lo sei, ma cosa vai a raccontare al prete, cosa?, i fatti tuoi? No no no, queste contraddizioni ti fanno soffrire troppo, lo vedi Franca che non c’è via d’uscita, d’altra parte pure Gesù lo dice: o bianco o nero, o di qua o di là, il vostro parlare sia Sì-sì — No-no: il resto viene dal demonio.

Meglio sconsacrata e condannata, che ipocrita.

Mia madre protestò a lungo, ma alla fine dovette arrendersi al fatto che sua figlia, la sua unica figlia, fosse entrata in una spirale di perdizione spirituale, fatta di domeniche e di vacanze da sola e con il ragazzo del momento, viaggi all’estero, altri interessi e passioni che non potevano assolutamente reggere il confronto con la cavolo di messa della domenica obbligatoria. Mio padre invece si astenne da ogni predica e commento. Vivi e lascia vivere. Continuava ad andare a messa lui, ma senza farmelo pesare.

Finirai all’inferno Franca, mi dicevo, ma forse le tante le messe cantate prima potranno in qualche modo controbilanciare il tuo carico di peccati… forse.

Mentre vivevo finalmente la mia vita (più o meno) spensierata, buttando la cosiddetta “fede” alle ortiche, il giovane parroco severo divenne arciprete, si ammalò e morì. Venne rimpiazzato da un altro più giovane parroco, un piacione che infarciva le prediche con frasi “gggiovani” e in dialetto pescarese, gesticolando e scendendo dal pulpito in moto perpetuo. Addio noia!

Alleluia!

Folle davvero oceaniche di giovani e meno giovani, attratti dal nuovo corso e dal nuovo prete, tornavano in parrocchia. Dappertutto vedevo i segni di un risveglio spirituale generale, dilagante, inarrestabile, impossibile da ignorare: la domenica sera, in tutte le traverse vicino alla chiesa, non c’era più un posto libero per parcheggiare… file e file di automobili arrivate anche da fuori quartiere e da fuori città, che “Don V. è uno fregno”, “Lui sì che ci capisce”, “Parla come magna, si capisce tutto quello che dice”, “Fa anche la messa per i divorziati”, “Alla sua messa non ci si annoia per niente”, “Adesso a messa tutti cantano, non è più com’era una volta”…

Già. Una volta, durante la messa eravamo solo noi del coro a cantare, canti polifonici in latino che il resto dei fedeli, in religioso silenzio, ascoltava. Un’aristocrazia canora la nostra, di cui andavamo fieri. Adesso invece imperava una democrazia stonata: con Don V., la chiesa riecheggiava di canti rigorosamente in italiano, rigorosamente gggiovani, e di schitarrate e di battimani che neanche allo stadio quando il Pescara giocava in serie A. Spinta da una tua amica, la notte di Natale rientrasti in chiesa per verificare se quel nuovo corso religioso avrebbe risvegliato anche la tua, di fede, ma respirasti soltanto fanatismo e voglia di farsi vedere, di esserci.

A te, tanto casino non risvegliava proprio niente, niente: anzi, metteva addosso soltanto una gran voglia di scappare. Sbuffando e scambiando occhiate critiche con la tua amica, resistesti fino alla fine della funzione, e uscisti dalla chiesa con un Mai Più tatuato nel cervello.

Continuasti a vivere la tua vita, le tue domeniche in altri modi. Ogni tanto sì, entravi in una chiesa a caso, spinta non sapevi da cosa, o per presenziare a matrimoni e funerali; una volta facesti anche da madrina di battesimo, ma senza fare la comunione.

La madrina calimera non fa la comunione

La cosa non passò inosservata, e ti dispiacque tagliarti fuori in quel modo plateale, ma sentivi di aver bisogno di coerenza; per prendere la comunione, avresti prima dovuto confessarti, e confessarti avrebbe presupposto un pentimento che non sentivi di provare, e quindi: che gli altri la facessero pure in peccato mortale, ma tu ti saresti tenuta la tua anima sporca. Perché nel frattempo la tua vita si era complicata ancora di più, vivevi appieno tutta la contraddizione tra la fede nella quale eri stata allevata e la tua quotidianità. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, Vivi e lascia vivere: ti sembrava già tanto riuscire a rispettare questi, di precetti; precetti laici. Quelli religiosi erano troppo pesanti, troppo difficili, osservarli pareva riuscire bene soltanto agli altri, alle altre: a quanti matrimoni hai partecipato, di tue ex amiche, ex coriste che a un certo punto coronavano il proprio sogno di vita e di fede condivisa; chissà come, a loro capitavano sempre uomini devoti, o almeno disposti a fingere di esserlo, quel tanto che bastava ad entrare in chiesa, seguire un corso prematrimoniale e sposarsi, con la benedizione del parroco e quella speciale del Papa.

Tu, a un certo punto fu chiaro che non ti saresti sposata. Che non era quella la tua strada, la tua vita. Accettarsi, era tutto lì; accettarsi per quello che eri. Laica; a tratti in coppia, a tratti sola.

Passò altro tempo, e anche la vita delle tue amiche cattolicamente sposate iniziò a complicarsi: alcune si separavano, altre si innamoravano di altre persone, separate o sposate a loro volta. E a quel punto, addio chiesa, addio parrocchia. Per lo meno, addio pratica religiosa tradizionale: o si trovava un prete “illuminato”, oppure… benvenuti nel mondo normale, nel mondo dei laici.

Il punto è che tu, in fondo, neppure tanto laica ti sentivi e ti senti. Una persona laica, laica davvero, mica continua a entrare nelle chiese ogni tanto, mica ci resta seduta in silenzio, senza cantare!, ad ascoltare una messa, ad ascoltare il vuoto, ad ascoltare chissà cosa. Mica se ne sta in compagnia di un ammalato pensando ai miracoli di Gesù con gli infermi. Mica entra nei santuari e tocca una statua di legno facendosi il segno della croce. Mica va in chiesa nelle ricorrenze “minime”, in occasione di quelle festività più popolari e profane che sacre: Sant’Antonio, la Candelora, San Biagio, perfino il Te Deum di fine anno, con un che di pagano che ti è sempre sembrato più autentico di tante messe scontate, imposte dall’abitudine.

Icona greco-ortodossa, isola di Skiathos

Tutte occasioni in cui una nostalgia senza nome ti stringe la gola e ti fa salire le lacrime agli occhi. Forse allora, non è proprio tutto bianco o tutto nero, di qua o di là, sì-sì no-no. Forse anche tu puoi, devi ritrovare una dimensione spirituale, Franca. Per ora non ti senti né pienamente cattolica né totalmente laica, né fedele né infedele, né carne né pesce; ma senti che qualcosa c’è. Qualcosa che non hai chiesto ma che hai, senza alcun merito, ricevuto; qualcosa che tanti cercano senza trovare mai, qualcosa che per quanto provi a dimenticare e a cancellare resta e resiste dentro di te, e ogni tanto riesce fuori, a sprazzi, a tentativi, tappe di una ricerca, di un cammino che non sai dove ti porterà.

Quello di sabato scorso è stato un tentativo, un passo, uno dei tanti. La messa nel giorno di San Biagio, conclusasi senza nemmeno assaggiare i famosi taralli consacrati all’anice, e senza l’antica benedizione della gola con l’olio benedetto o con le candele incrociate, che pure tanto desideravi. Semplicemente, sentivi che dovevi andare, e sei andata; il perché, forse un giorno lo scoprirai, purché tu continui a camminare. Ad avere fede.

https://www.youtube.com/watch?v=xtd-kW5SS64

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Franca Di Muzio

copywriter, ufficio stampa, giornalista, scrittrice... di mare