Sartoria sentimentale

Franca Di Muzio
9 min readFeb 14, 2019

--

Una nevrotica parabola vintage

In omaggio a mia madre, sarta sopraffina, e a Elvira Seminara, autrice dell’”Atlante degli abiti smessi”.

Armadio mio…

Ci hai provato tante volte negli ultimi mesi, negli ultimi anni, senza mai riuscirci davvero. Ore e ore trascorse passando in rassegna i tuoi capi, misurandoli uno per uno, facendo pile distinte per colore, materiale, stagione… per accorgerti alla fine che non era quella la volta buona, quella definitiva, per rimettere a posto l’armadio, sfrondarlo del vecchio e lasciare spazio a una nuova, più aderente immagine di te.

A parte qualche rara, sofferta epurazione, non sei ancora riuscita a buttarli via, quei vecchi vestiti, pezzi di vita vissuta; meno doloroso spostarli di posto, di graduatoria, di settore:

Per Uscire // Per Stare a Casa.

Per Fare Sport // Per Ballare.

Da Lavoro // Da Acchiappo.

Da Lasciatemi Perdere //Da Guardatemi.

Da Calimero // Da Cigno.

Da Centro Sociale // Da Serata in Società.

Al di fuori da ogni categoria, soggetti a fluide, continue contaminazioni tra un settore e l’altro, i tuoi preferiti: quelli vintage, che ti facevano (fanno?) stare bene e sentirti bella, elegante, sicura di te.

Ma vintage quanto?

Non si chiede l’età a una signora, tanto meno ai suoi abiti; forse però, per un paio in particolare sarà caso di fare un’eccezione, raccontare la storia del vostro incontro; che per entrambi inizia a giugno, per te da sempre mese di promesse, di sole, di mare, di prime abbronzature, di amori e lavori nascenti.

Giugno 2001. L’anno del tuo esordio da copy junior a Bologna. Prima di partire, mettesti in valigia un completo pantalone acquistato per l’occasione.

Stoffa: fresca e resistente, ti cadeva addosso a pennello quel bel cotone-rasatello a rose stile anni settanta; camicia senza maniche aperta sul davanti (unica eccezione del tuo armadio, ché a te le camicie non piacciono), sagomata in vita con colletto a punta; con abbinati relativi pantaloni a zampa, esasperati da una decisa piega longitudinale, stirata davanti e dietro.

Colori: sfondo nero, le rose nei toni del rosso, del giallo e del verde pastello.

Negozio, anzi negozietto: il tuo preferito, che da tanti anni non esiste più — le padrone (due belle amiche, dai lunghi matrimoni e dai sincroni divorzi) l’hanno venduto, cedendo alle lusinghe di un franchising dell’intimo. Ogni volta che ci passi davanti ripensi a quanti bei capi hai acquistato lì, in quei dieci metri quadri insaccati tra vetrine molto più ampie, e ti chiedi: se ne saranno mai pentite? Sospetti di sì.

Riprendi in mano il completo, cercando di quantificare quante volte lo hai indossato. Impossibile contarle… così versatile, così comodo, quanta eleganza ti ha donato, quanta sicurezza e professionalità; non solo, si è pure sdoppiato volentieri, prestandosi ad abbinamenti con altri capi, sostenendoti in colloqui di lavoro, in incontri dove un tocco di formalità ci stava bene, ma senza sacrificare la femminilità.

Appena sbiadito, ha conservato tracce della sua antica bellezza. E ti credo: lavato sempre e solo a secco, rinforzato agli orli con rammendi strategici, bottoni e zip sono ancora quelli originali — hai fatto molta attenzione a non perderli per strada, in un’attenta, costante attività di rinforzo e manutenzione.

Potresti indossarlo di nuovo, tanto più che ti entra ancora e ti sta ancora bene: perché il tuo peso è rimasto lo stesso… pur se anche la tua bellezza sta sbiadendo, o meglio: “acquisendo fascino e maturità”.

Potresti indossarlo di nuovo, se non fosse che, d’improvviso…

Uno strappo traditore, proprio in mezzo al culo, un giorno che da tua madre ti eri piegata per raccogliere un oggetto caduto a terra; hai fatto finta di non sentirlo, hai preferito non verificare subito, non andare subito a vedere il danno e l’entità, ignorarlo… poi, una volta a casa, te lo sei sfilato via di fretta quel pantalone, e senza guardarlo l’hai appallottolato e lanciato in un angolo dell’armadio.

Speravi forse che durante la notte si rammendasse da sé?

Speravi non fosse poi tanto grave.

Ma quando finalmente ti decidi a esaminarlo vedi che sì, uno strappo è uno strappo è uno strappo, e pare davvero irrimediabile; a meno che…

A meno di non farci un bel rammendo!, di quelli accuratissimi e in-vi-si-bi-li che sapeva fare solo tua madre, e che la rendevano tanto richiesta dalla boutique vicino casa come sarta d’emergenza, sarta d’eccellenza, sarta dei casi disperati.

A meno di non metterci sopra una toppa, a colore o a contrasto…!

Ma piantala, Fra’: se proprio ci tieni a vestirti da Sbirulino, aspetta Carnevale, almeno.

E poi, guardando meglio: riparare lo strappo, quello sarebbe il minimo.

È che la stoffa adesso è lisa: andrebbe rafforzata agendo in punti strategici sul rovescio, con uno stirattacca nero, fissato a caldo con un ferro da stiro; e magari così un altro po’ durerà, il tuo completo rassicurante e bello, forse altri dieci anni (vabbè, al massimo due) se ci stai attenta, attenta a non fare movimenti bruschi, a non distrarti, a non piegarti d’improvviso a 90 gradi, se lo maneggi con ogni riguardo, riservandogli i lavaggi delicati di selezionate tintorie.

Vabbè Franca, amen! Butterai i pantaloni e ti terrai la camicia, che è ancora buona: pare quasi nuova, senza strappi — non ancora.

Sì, ma così non sarà più un completo… un paio, una coppia.

Ehhh vuol dire che la camicia single la abbinerai a qualcos’altro: un altro paio di pantaloni, o una gonna… una gonna. A proposito, da quanto tempo non metti una gonna?

Due settimane?

Troppe, troppe! Che donna sei, senza gonna?

Lasci in sospeso la domanda per concentrarti su un altro capo che ti sta a pennello e a cuore; risale a un altro tempo, altro giugno.

Quello del 2015. L’anno del tuo esordio nel variegato mondo del tango argentino.

Tuta estiva smanicata con scollo all’americana e pantaloni affusolati, a disegni psichedelici in colori vivaci — sinuose, nere onde optical su campiture di colore rosso giallo viola su sfondo bianco panna.

Il bianco panna, spudorata raffinatezza da primi anni ’80: il colore dei vestiti da sposa delle tue cugine. Un colore non ipocrita, pussa via vestiti da sposa bianco candido!, noi che facciamo tranquillamente l’amore prima del matrimonio scegliamo un bianco diverso, sincero, moderno, quasi… sporco.

E che belli, quei motivi astratti nei toni rossi gialli viola e neri, con il panna ci si sposano così bene. Una tuta sfacciata e androgina, potrebbero indossarla David Bowie o Freddie Mercury per fare shopping, appena la vedi te ne innamori e la acquisti: d’impulso, di mattina, di passaggio in un mercato rionale di una graziosa cittadina, e in una bancarella cinese, per giunta — tu!, tu che promuovi a tutti i costi il made in Italy anche a costi proibitivi, tu che scruti sempre le etichette con occhio da entomologo, tu che tua madre sarta ti ha appiccicato addosso il vizio della precisione, dell’attenzione alle cuciture, agli orli, alle asole, allo sbieco… e invece: una prova al volo nel retro di un furgone, con la cinese che ti regge davanti uno specchio dove ti vedi a pezzi e a malapena, ma la decisione è presa all’istante: mi piaci, mi piaccio, sei mia!

Ma… è stoffa sintetica.

Ma… chissà che coloranti tossici ci stanno dentro, quali fibre velenose.

Però, ti cade addosso ‘na favola.

Ti ci senti bene, attraente e comoda. A prima vista ti ha presa, pazzamente incuriosita.

Non che non abbia provato a resisterle, eh: passandoci davanti due-tre volte, dicendoti che no, non era il caso, non eri lì per quello, non era assolutamente il caso di provarla, ma lei era una vera calamita, la tuta cinese. Che una volta indossata, inaspettatamente ti rispecchia: originale e vivace, scopre e copre allo stesso tempo, in un gioco di vedo-non vedo che evidenzia i pregi della tua figura e ne accarezza i difetti.

Senza contare che per ballare il tango va benissimo: i pantaloni sono stretti in fondo, non ti daranno fastidio negli ochose nei ganci; il top lascia le spalle nude, quindi nell’abbraccio non sudi… segni il punto vita con bella cintura alta e vai!

Altro che, se vai. Ovunque, ci vai.

Quattro anni dopo, però, qualche difetto salta fuori: la stoffa si è come slentata, impercettibilmente per chi la guarda da fuori, ma per te che la indossi, la differenza la vedi e la senti; d’altra parte, il sintetico… e poi è spuntata da chissà dove una macchia, su una gamba; evidente a un occhio sartoriale, per i più si confonde ancora con la fantasia psichedelica.

Decidi che la tuta sei ancora disposta a indossarla, anche se non ti ci senti più sexy ed elegante come una volta, quando la stoffa era più soda, quando quella macchia non c’era. Ti piace troppo, ti piace ancora tanto. Non sarà più adatta per tutte le occasioni, ma d’altronde: quale abito lo è?

Non esiste l’abito perfetto, esiste quello in cui ti senti ancora Franca.

E se un giorno avessi voglia o bisogno di qualcosa di davvero impeccabile? Qualcosa con cui poter andare in società?

Accosti il completo e la tuta, metti le stoffe a confronto. Il cotone-rasatello è durato 19 anni prima di strapparsi; il sintetico-poliestere, 4 anni prima di macchiarsi.

Cos’è più facile da nascondere, da ignorare, da riparare: una macchia, o uno strappo?

La macchia è… colore diventato indelebile, che intride la fibra: una volta passata indenne tra lavaggi e asciugature è finita, fissata, non se ne va più. Smacchiarla, sbiadirla con la varechina, ma a prezzo di intaccare anche gli altri colori intorno? Nah, sarebbe troppo. Non sarebbe più lei, la “tua” tuta. Poi sì, che dovresti buttarla via per davvero.

Uno strappo, invece… si può pure provare a ricucirlo, sanarlo, incollarlo in qualche modo. Resterà un segno, però; una cicatrice che è anche una ruga, un segno del passare del tempo e del suo valore. Un pregio, secondo il Kintsugi.

E cos’è più bello, più confortevole da portare: un tessuto naturale ma liso, o uno artificiale, tra il cedevole che sconfina nel molle?

La risposta la sai. Meglio sarebbe comprarti capi nuovi, in tessuti pregiati e resistenti: la seta, il lino, il cachemire… ma non puoi permetterteli, e poi — soprattutto — sei una sentimentale, nevrotica, feticista del cavolo. Attaccata ai vestiti, ai ricordi, ai momenti del passato come una cozza allo scoglio.

Torni a sbirciare nel settore invernale del tuo armadio 4 stagioni. Eccola lassù!, appesa in alto, la tua minigonna scozzese preferita, corta-corta, semplice e birichina come una ragazzina; anche quella da mercato, acquisto a prima vista, scovata lottando gomito a gomito con altre invasate sul banco degli scontissimi a cinque euro, con i venditori che vi urlavano in faccia Ammazza Che Prezzi! Che Prezzi!

Ma sarà di seconda, terza mano.

Ma l’orlo è un po’ slabbrato.

Ma ha un bottone spaiato.

Sì, ma mi ci sento così bene.

Sì ma non divagare adesso Franca, torna al punto. Anzi, ai punti.

Uno strappo è una cosa, un tessuto slabbrato e macchiato è un’altra.

Lo strappo si può ricucire, ma sempre strappo resterà. E a quel punto: Kintsugi, o Kissenefrega?

Pure un tessuto slabbrato e macchiato è e resterà tale: molle e cadente… o morbido e confortevole, a seconda dei punti di vista, dello stato d’animo e della voglia con cui lo indossi. O te ne freghi e te lo tieni, oppure…

Nessun capo, nemmeno quelli che ci cadevano addosso alla perfezione, resta perfetto a distanza di anni. E anche i nostri corpi: si slentano, si macchiano, si strappano.

Per i corpi ci rivolgiamo ai medici, ai fisioterapisti, agli specialisti, ai becchini.

Per i vestiti esistono i negozi, i sarti, la raccolta differenziata. Con i vestiti, è più facile.

E che cosa si fa, quando un vestito, un abito non ti sta più bene?

Si butta via e se ne compra un altro, semplice. Oppure,

Si cerca una sarta per farlo riparare, adattare. Sennò,

Lo si declassa a capo “per casa”, non per uscire. Altrimenti,

Non lo si indossa neanche più “per casa”, ma lo si tiene nell’armadio senza buttarlo via: non si sa mai, potrebbe sempre servire… non tutto, certo, magari un pezzo soltanto, una striscia di stoffa, un bordo, un polsino: occuperà spazio, però… un domani si potrebbe addirittura trovare un altro capo, un capo nuovo a cui poterlo abbinare in maniera originale: taglia, cuci e lascia andare la fantasia!

Mannaggia alle mamme sarte sopraffine, mannaggia.

Capi usati, vissuti più o meno a lungo, più o meno intensamente, messi e poi smessi. Quali difetti (di partenza e dunque sartoriali, di fabbrica; oppure di usura, temporali) riesci ad accettare e vuoi ancora sopportare, gioiosamente sopportare, tenerti stretti, sorridendoci su, godendoteli?

Toh, uno strappo! Toh, una macchia!

Così è la vita!

Giugno, mese che ti ha sempre portato bene. Giugno 2019. Un altro giugno, mese ideale per il cambio di stagione, per decidere quali capi tenere ancora nel tuo armadio e quali no. Tenere o lasciare, e anche comprarti qualcosa di nuovo e sovrapporre a quelle passate remote, passate prossime e presenti, anche un’altra, più aderente immagine di te.

Quasi una seconda pelle.

--

--

Franca Di Muzio

copywriter, ufficio stampa, giornalista, scrittrice... di mare