Tra moglie e marito
Un 25 novembre fuori stagione.
Quando la signora Emilia suonò al nostro campanello quel pomeriggio di agosto, eravamo ufficialmente in vacanza. Papà aveva appena dato fuoco alle braci della fornacetta sul balcone e si apprestava ad arrostirci i peperoni; mamma invece era in cucina, intenta a preparare il condimento: sedano tritato, aglio, prezzemolo, sale e tanto, tanto olio d’oliva.
Io andavo da una stanza all’altra, irrequieta come un’undicenne appena rientrata dal mare che cerca scuse per rimandare il più possibile il momento della doccia. Mi annoiavo da morire, di quelle noie d’altri tempi, estive e formative, e non capivo che cosa ci trovasse papà di tanto divertente nel preparare la brace, anche se poi i peperoni arrosto mi piacevano assai.
Lo osservavo brigare con carte di giornale, carbone e fiammiferi, suscitando scintille in vari punti della fornacetta, ma sempre con la debita cautela:
- Stai lontana, con il fuoco non si scherza!, mi raccomandò, ed io ubbidii, spostandomi verso l’orlo del balcone e guardando di sotto, in cerca di diversivi e distrazioni. Niente, neanche un gatto, un cane, nulla… quando a un tratto, laggiù in fondo, in corrispondenza dell’ultimo portone dello stabile, spuntò una figuretta esile.
Avanzava a tentoni, come una sonnambula, con addosso una vestaglietta a fiori svolazzante, ai piedi delle semplici ciabatte: una casalinga del tutto simile a quelle che popolavano il nostro caseggiato popolare, se non fosse che, al contrario delle altre, usciva molto poco di casa.
Girava voce che il suo breve passato da maestra elementare si fosse trasformato, dopo il matrimonio, in un grigio presente scandito dal marito, preside in pensione molto più vecchio di lei; che lei non ci stesse più tanto con la testa e che lui la tenesse segregata, ma: “tra moglie e marito non mettere il dito”, ognuno nel palazzo si faceva i fatti propri. Io poi, in una decina anni lì, l’avevo incrociata sì e no un paio di volte in tutto, quindi mi parve un evento eccezionale vederla uscire e andarsene a spasso, così, apparentemente senza meta.
E invece no, una meta l’aveva: si fermò sotto il nostro portone, allungò una mano verso il citofono, e il suono del campanello si diffuse per tutta la casa.
- CHI E’??, urlai a squarciagola, appesa al davanzale, come avevo sempre visto fare dai nostri vicini quando qualcuno suonava a casa loro e come avevo sempre sognato di fare; anche se sapevo benissimo chi era.
Due piani più sotto, giunse una fievole risposta: Emilia… sono Emilia…
- Emilia chi??, chiese papà, appoggiando i peperoni sulla graticola.
- La signora F., papà!, risposi, usando il suo cognome da sposata, felice di svelare l’arcano, ma lui imperturbabile continuò ad arrostire, finché dopo un paio di minuti arrivò mamma sul balcone e lo chiamò. Aveva una faccia strana.
- Nino… puoi venire un momento di là?
Lui si alzò, si pulì le mani con uno strofinaccio, m’ingiunse di non toccare niente, mi raccomando!, che con il fuoco non si scherza, ma io ero troppo curiosa ed eccitata: la signora F. in carne ed ossa, nel nostro salotto!, e gli corsi appresso.
Per la prima volta la vedevo da vicino: accartocciata sul divano, i lunghi capelli spettinati, la pelle bianchissima come se fosse stata lavata con la varechina, gli occhi rossi sotto gli occhiali spessi; sembrava si fosse appena svegliata da un lungo, lunghissimo sonno, e non si rendesse ancora bene conto di dove si trovava. Una bella addormentata… ma neanche tanto bella, e senza principe azzurro; una bella addormentata con l’orco.
- Orco, mio marito è un orco…, si lamentava, mentre mamma scuoteva la testa. Papà ascoltava e taceva.
- Io a casa da lui non ci torno: piuttosto, mi butto nel fiume!, sibilò, con voce stridula e debole. — Si è dimenticato di chiudermi dentro, stavolta, e allora sono uscita così, come mi trovo… scusatemi, scusatemi tanto! aggiunse, torcendosi le mani.
Io mi ero trasformata in soprammobile: ferma, non fiatavo.
Mamma tornò con un vassoio, sopra c’erano dei biscotti e un gingerino: — Deve mangiare qualcosa signora, si tiri un po’ su…
Ma Emilia era agitata, straparlava del fiume, dell’orco, non è più vita, non ne posso più, meglio morire.
- Su su, signora, tutto si aggiusta… adesso vediamo che si può fare, disse papà. All’epoca i telefoni rosa, i numeri verdi e il 25 novembre giornata internazionale contro la violenza sulle donne e le installazioni con le scarpe rosse e i flash mob a tema non esistevano ancora: erano gli anni settanta, ed io ero troppo piccola per sapere, per capire. In effetti non ci stavo capendo nulla, l’unica cosa che riuscivo a pensare era: Perché noi? Perché la signora Emilia era venuta qui, aveva suonato proprio a noi invece che a quelli del suo pianerottolo, del suo interno? Se neanche ci frequentavamo…!
E lei, come se mi avesse letto nel pensiero, gli disse: — Lei Signor Dionino, è sempre tanto gentile… ogni anno l’8 marzo coglie le mimose e ce le porta a casa, a tutto il palazzo… perfino a me, che non ci conosciamo… perdonatemi se ho suonato a casa vostra, ma non sapevo a chi rivolgermi… io con quello, con l’orco, non ci torno più! Mi tiene prigioniera, mi prende tutti i soldi… piuttosto morta, piuttosto il fiume!, e riprese a piangere.
A quel punto i peperoni fuori dal balcone erano già bell’e bruciati, ma mamma e papà ormai avevano solo una cosa in testa: come aiutare la signora Emilia. Ma non potevano farlo con me tra i piedi, ad ascoltare cose troppo adulte per la mia età, e allora — Vai Franca, vai a giocare, vai!, mi spinse mamma fuori dalla porta e infilandomi in quella della dirimpettaia: — Dopo ti spiego, le disse, e quella non fiatò, e io non riuscii a sapere cosa architettarono nel nostro salotto.
Mi appesi al balcone della vicina, piccola vedetta in attesa di sviluppi; e infatti, dopo una decina di minuti, li vidi uscire tutti e tre, a bordo della gloriosa Prinz di papà, diretti non si sa dove.
A malincuore tornai dentro, a tavola, insieme a tutta la famiglia; cenammo, io divorata dalla curiosità, e a sera inoltrata — molto, ma mooolto dopo Carosello — i miei finalmente mi vennero a riprendere.
- Allora, che è successo?, chiese la vicina, e a quel punto mamma abbandonò ogni remora e raccontò che avevano accompagnato la signora Emilia a Caramanico — dove non c’era nessun fiume in cui annegarsi, ma sorgenti termali curative — a casa di una lontana cugina: l’unica parente che le era rimasta, che a sua volta l’aveva accompagnata dai carabinieri a denunciare lui, l’orco.
Provai a immaginarmelo, che rientrava in casa e non ci trovava più sua moglie, la sua schiava; la sua rabbia, il suo sconcerto, la ricerca vana… e mi venne una paura tremenda, paura anche per noi. Temevo che chissà come sarebbe risalito a chi aveva aiutato sua moglie, e che quella notte avrebbe suonato alla nostra porta, ma furono i carabinieri a suonare alla sua, di porta.
Di pianerottolo in pianerottolo, la voce girò e tutto il palazzo seppe: che va bene “Tra moglie e marito non mettere il dito”, ma i miei se ne erano fregati e papà, che a malapena e controvoglia guidava la sua Prinz in città, si era avventurato in un viaggio Pescara-Caramanico andata e ritorno, per di più di notte, per poterla aiutare.
Non la vidi più. Seppi che era rimasta a vivere nella quiete termale di Caramanico, dove l’orco non potè più raggiungerla. Ogni Natale ci telefonava e ringraziava, Se non ci fosse stati voi… a farsi carico di una semisconosciuta sconvolta in ciabatte, a non far finta di niente, a non girarsi dall’altra parte; ad esserci.
Soltanto dopo quarant’anni, complici le ripetute inchieste e le cronache di violenze, abusi e soprusi sulle donne ascoltati in tivù, la signora Emilia sarebbe tornata a farmi visita: questa volta in sogno, in punta di piedi scalzi, la vestaglietta a fiori ondeggiante sul corpo esile di fatina sorridente, scompigliata e libera.