Starting Over
A chi non si arrende, a chi trova tardi la propria strada, a chi crede che non la troverà mai, a chi non crede più a niente e a nessuno, tantomeno a se stesso: la mia piccola grande storia.
A nave rotta, ogni vento è contrario.
(Giovanni Verga, “I Malavoglia”)
A tredici anni avevo due ossessioni, una musicale e una sentimentale.
La prima era questo lento, che avevo fatto mio con un radioregistratore nuovo di zecca, regalo di incoraggiamento dei miei per l’imminente conquista della licenza media — tre anni infiniti, odiati dal primo all’ultimo giorno: la mia indole secchiona e negata per gli sport di squadra, mi rendeva doppiamente invisa ai compagni meno studiosi ma più popolari.
La seconda era M., sottili occhi verdi e sorriso beffardo, che con periodicità variabile mi gratificava di sguardi indecifrabili. Di qualche anno più grande di me, frequentava un gruppetto di coetanei spigliati e ridanciani; aveva legato in particolare con F., mascolina sorella del suo migliore amico, che non perdeva occasione per lanciargli battute taglienti, rivolgendoglisi come se fosse… un fratello, appunto. Lui ricambiava con la stessa ferocia, che culminava in un coro di commenti perfidi, indirizzati a bersagli ignari. Tremavo al pensiero di poter diventare uno di loro, ma non mi era mai successo, anzi: lui mi aveva notata (perché guardarmi in quel modo, sennò?), mentre lei continuava serenamente a ignorarmi, a parte qualche distratto saluto in parrocchia, che io frequentavo da corista e lei da scout.
Ogni notte, nel silenzio ovattato del dormiveglia, appaiavo canzone e cotta in un personalissimo film a lieto fine. Io e M. ci ritrovavamo casualmente (il fattore caso era fondamentale per la riuscita del mio sogno) a una delle tante feste improvvisate, organizzate di pomeriggio, senza un motivo apparente, da qualche ragazzo del quartiere. Genitori assenti o tolleranti, un salotto spogliato di sedie superflue per fare spazio ai ballerini, un tavolino all’angolo carico di bottiglie di Fanta, Coca Cola, salatini e patatine, un impianto stereo o, in mancanza di questo, un radioregistratore; tapparelle abbassate, lampade smorzate da strategici foulard e, a coronare il tutto, un musicofilo che si sacrificasse come DJ.
Al mio arrivo, avrei individuato immediatamente M. nella calca salottiera, ma avrei fatto finta di niente, continuando a parlare con le mie amiche finché lui non si fosse accorto di me. Scomponevo in istanti infiniti il momento in cui i nostri sguardi si sarebbero incrociati e, in una tacita intesa, ci saremmo diretti l’uno verso l’altra in un semibuio affollato di coppie che ballavano, protesi verso un abbraccio soffuso di luci stroboscopiche e ombre strategiche, che avrebbero nascosto agli altri il nostro primo bacio. THE END.
Il film ripartiva da capo e io mi rigiravo nel letto, inventando nuovi particolari per renderlo ancora più struggente — cosa avrei indossato? Il giubbino Roy Rogers nuovo sulla minigonna rosa e i sandali alla schiava, ovvio; e lui, cosa mi avrebbe detto? E io, cosa avrei risposto?? E noi, ci saremmo messi insieme??? — finché il sonno vinceva le mie fantasie.
Poi c’erano gli incubi diurni, fin troppo reali. In terza media mi ero ritrovata d’improvviso tra i compagni di classe un certo P., dinoccolato ripetente, più grande di noi di un anno che ne valeva almeno cinque, data la sfacciataggine con cui sfidava i professori, del tutto incurante delle loro interrogazioni e degli esami di licenza incombenti. In spregio alla docente di storia e geografia che lo rimproverava per la sua impreparazione, P. uscì dal suo banco e, lemme lemme, andò a sputarle nel caffè fumante che il bidello le aveva appena appoggiato sulla cattedra. Lei, uscita un attimo per rispondere a una convocazione urgente, non vide l’oltraggio; e una volta rientrata, sorbì la torbida bevanda nel silenzio più totale, davanti a venti paia di occhi sbarrati.
O spie, o complici: tra le due opzioni, scegliemmo la seconda. Fu quello il momento in cui promisi solennemente a me stessa che MAI, mai e poi mai nella vita avrei fatto l’insegnante.
Per non perdere la compagnia di alcune ragazze del quartiere, fallii nella scelta delle scuole superiori. Ragioneria. Odiai da subito tutte le materie, restando scollegata dal resto della classe e sfondando con un pugno la porta di cartongesso della nostra aula durante una ricreazione particolarmente movimentata. Le ripetute assenze ingiustificate (AKA “filoni”) completarono l’opera: persi un anno, ma riuscii a redimermi nei cinque seguenti, frequentando con passione e profitto l’Istituto d’Arte, sezione Stampa, che si rivelò per me fonte di stimoli continui e amicizie inossidabili. Mi diplomai con il massimo dei voti, secchiona.
I miei non potevano permettersi una figlia fuorisede, così al posto delle desiderate Accademia di Belle Arti o DAMS, tra le facoltà più vicine scelsi Lingue, notoria fabbrica di viaggiatori, professori, professori viaggiatori. Preferii da subito la terza opzione, andando a fare un semestre all’estero come assistente linguistico dopo la laurea (con lode. Secchiona).
Insegnare italiano agli stranieri mi piaceva, e per un po’ ne feci la mia professione anche al ritorno in patria, barcamenandomi tra contrattini e compensini in scuole private più e meno prestigiose; avrei già dovuto iniziare a destreggiarmi tra supplenze, graduatorie e concorsi a cattedra, ma non volevo blindarmi in un ruolo e in una scuola; invece, forte delle mie competenze linguistiche e passioni letterarie, mi tuffai a capofitto nel mondo dell’editoria e della comunicazione che, almeno all’inizio, ricambiò il mio entusiasmo.
Accumulavo stage e collaborazioni, mentre le mie ex compagne di corso facevano supplenze (di pochi giorni, di un mese, di un intero anno scolastico) e scalavano graduatorie. Non le invidiavo affatto, non desideravo la loro stabilità. Le vedevo meno ardite, più arrese a una vita prevedibile e ingessata, incanalata in noiosi percorsi obbligati: dalle supplenze ai punteggi, dai punteggi alle graduatorie, dalle graduatorie ai concorsi, dai concorsi alle cattedre.
Io no: io ero diversa, io non mi sarei richiusa tra quattro mura crepate e scarabocchiate, sgolandomi appresso a torme di indisciplinati adolescenti sputacchieri; ma, circondata da persone stimolanti e creative, avrei partorito parole immortali — o, per lo meno, pubblicitarie.
Sospinta da un amore a distanza e in cerca di opportunità di lavoro nella sua regione, finii per iscrivermi nelle graduatorie del personale ATA (Ausiliare, Tecnico e Amministrativo). Era un compromesso di mio gusto — scuola sì, cattedra no: non sarei diventata una pesante professoressa, ma complice dei ragazzi facendo l’assistente tecnico di laboratorio, affiancandoli in attività pratiche ad alto tasso di creatività. Rimediai così un paio di supplenze brevi, ma oltre all’incarico anche l’amore finì e tornai ad altre passioni e occupazioni.
A trent’anni inoltrati lavoravo come copywriter senior, migrando felicemente di agenzia in agenzia. Spinta però da una molesta vocina interiore, radunai le forze per approfondire quelle materie che pensavo di aver ormai sepolto nel mio passato accademico, ed affrontare l’ultimo concorso abilitante bandito dal Ministero della Pubblica Istruzione — non si sa mai, nella vita… tanto, io non insegnerò mai.
Dai tempi dell’università non studiavo cosìììììì, ufffffff, mi lamentavo con mia cugina, principale sponsor della professione docente: Dai dai, Su su, Devi solo riprendere l’allenamento, è come andare in bicicletta!, E poi tu nello studio sei sempre andata forte! Secchiona.
Sei mesi ci misi a prepararmi, annoiandomi a morte, e più annoiata che ansiosa affrontai uno scritto e un orale che superai senza infamia e senza lode, ottenendo non una cattedra ma un’abilitazione all’insegnamento dell’inglese, valida per le medie e le superiori — bon Franca, adesso puoi metterla in un cassetto, metterti l’anima in pace e non pensarci più.
Per i vent’anni successivi ignorai quel certificato vergato e timbrato dal Provveditorato agli Studi; anni durante i quali quest’ultimo divenne Ufficio Scolastico Provinciale, il Ministero della Pubblica Istruzione si ampliò in Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e una serie impressionante di riforme disintegrò l’ingessato Mondo della Scuola in mille universi paralleli, popolati di dirigenti, di acronimi, di funzioni e… sì, anche di studenti.
Nel frattempo, la mia condizione privilegiata di dipendente a tempo indeterminato e la mia identità (professionale) si sgretolavano sotto i colpi della crisi mondiale e della gig economy: dai quarant’anni in poi fui cassintegrata, disoccupata, cocoprogettuata, tempodeterminata, esasperata e ansiosa di migliorare la mia situazione lavorativa. I miei, intanto, erano invecchiati e ammalati; da figlia unica, divenni giocoforza anche loro caregiver.
Tre anni fa, mentre tornavo a casa dal mio ennesimo lavoro sottopagato e determinato, mi telefonò un ex assistente e professore della mia amatissima scuola d’Arte:
Come stai, che fai, come sei messa?
Bene, facciocosevedogenteguadagnoniente. Male.
Benissimo! Sappi che la prossima settimana ci sono le convocazioni per il personale ATA.
Ah. E quindi?
E quindi ho controllato sul sito dell’USP: sei prima in graduatoria! Ma devi presentarti, sennò perdi un’occasione!
USche? Di che graduatoria parli? Ma se è da almeno vent’anni che non aggiorno il mio punteggio!
Sì, ma tu sei nelle GAE, le graduatorie a esaurimento!
(Esaurita ci sono, in effetti…)
Mi fiondo alle convocazioni, dove con mia somma incredulità ricevo e accetto una proposta di assunzione a tempo determinato ministeriale e prendendomi la soddisfazione di mollare il mio datore di lavoro da un momento all’altro, d’amblé: così impara, a sfruttare!
Riparto, ricomincio, rientrando nella mia ex scuola superiore come assistente tecnico, con incarico di supplenza annuale.
Attanagliata da una cronica sindrome dell’impostore, mi aggiro per le aule e i laboratori, cercando di non far intuire agli studenti la mia imperizia; poi pian piano mi sciolgo e, a fine supplenza, inizio a sentirmi a casa, anzi: a scuola.
Il bilancio dell’esperienza è positivo. Sono decisa a continuare anche nel prossimo anno scolastico: meglio precaria nel pubblico che nel privato. Un occhialuto e arguto sindacalista, chiamato a vegliare sulle nuove nomine, mi esorta però a lasciar perdere gli ATA e ad iscrivermi nelle graduatorie dei DOCENTI:
Sennò caramia, che ti sei laureata e abilitata a fare?
Ma io ho sempre detto di non voler insegnare…
Caramia, ma tu ci hai mai provato davvero?
Tornano a galla i rimossi mesi trascorsi all’estero dopo la laurea a fare la lettrice di italiano. In effetti sì, per un po’ a insegnare ci ho provato, e mi è piaciuto moltissimo. Ma lì era diverso, un paese nuovo, in lingua straniera… qui, in Italia… hmmm, non fa per me.
Il sindacalista mi fissa da sopra gli occhiali.
Caramia, da allora le cose sono cambiate; oggi non c’è più la scuola delle cattedre — e degli sputi nel caffè!
È meglio, è peggio, è diverso da tutto quello che ho fatto finora: è la sfida di cui ho bisogno per sentirmi davvero viva.
La mia abilitazione all’insegnamento riposa intatta nella sua foderina di plastica, insieme agli altri certificati e attestati formativi accumulati nel corso della mia vita lavorativa. Li metto a confronto con la lista dei Titoli Valutabili sfornata dal MIUR e inizio anch’io, con oltre vent’anni di ritardo rispetto alle mie amiche abilitate e professorate, la mia brava “raccolta punti” — così la chiamerà un’altra precaria, assisa nella sala d’attesa del sindacato scuola.
Certificazione informatica. Celo.
Certificate of Proficiency in English. Celo.
Corso di Perfezionamento postlaurea. Celo.
Servizio come Assistente linguistico all’estero. Celo.
Disabilità? 104? Figli a carico? Nah. Peccato, anche quelli so’ punti, o meglio preferenze.
Porgo il mio malloppo al sindacalista che, previa snervante trafila informatica, mi iscrive anche nelle graduatorie degli aspiranti Docenti. Ora non mi resta che aspettare; anzi, visto che non son né ricca di famiglia né mantenuta, rispondere di nuovo Sì alle convocazioni come ATA a tempo determinato.
Come, Sì? Come, ATA?
Il fatto è che ormai sono precaria dentro. Non mi fido, e non me la sento di campare centellinando la Naspi in attesa che mi chiamino per una supplenza da prof, così rifirmo per trascorrere un altro anno scolastico da Assistente Tecnico. Fifona ma realista: so bene di avere pochi punti, e tante persone davanti nelle graduatorie su materia, quelle per insegnare inglese; tanto che il sindacalista, per aumentare le mie possibilità di essere chiamata, mi ha inserita anche in quelle Incrociate del Sostegno.
Il Sostegno è la bestia nera, non lo vuole fare nessuno: è dura, è difficile occuparsi della formazione e dell’integrazione di alunni e studenti con Bisogni Educativi Speciali, e allo stesso tempo fare da collante relazionale tra scuola, famiglia e società, docente, tutor, assistente sociale, psicoterapeuta, coach, rompiscatole, neuropsichiatra, fisioterapista a seconda delle necessità, e intanto essere considerati docenti di serie B da molti colleghi e studenti.
Il Sostegno è la panacea, lo vogliono fare tutti: potersi dedicare soltanto a un alunno e alla sua classe mettendo in pratica una didattica davvero individualizzata e personalizzata, diventare il complice e il confidente dei ragazzi; non ultimo, è la chiave di ingresso per entrare più rapidamente nel mondo della scuola, perché dopo qualche anno a fare sostegno si può passare finalmente a insegnare la propria materia, quella in cui si è abilitati!
Seee, figurati se.
Statti calma, Franca; statti ATA. Tanto più che adesso a questo lavoro, ormai, ti ci sei… abituATA.
Basteranno solo due anni di supplenza, e poi potrai iscriverti nelle Graduatorie ATA 24 mesi, quelle da cui si assume a tempo in-de-ter-mi-na-to!
Assistente Tecnico a vita. 36 ore settimanali del mio tempo contro malattia, permessi, ferie pagate. Sempre meglio che precaria a vita, penso, vagando senza entusiasmo per i laboratori ormai spogli di camici e inchiostri — anche al Liceo Artistico, ex Istituto d’Arte, le attività pratiche hanno ceduto il posto ai computer.
All’inizio del mio secondo anno da AT (assistente tecnico) non me ne capacito, mi annoio, mi deprimo. Vorrei ancora essere e sentirmi utile; il fatto è che non ho niente da fare, dato che già lo scorso anno ho rimesso in ordine gli archivi, riorganizzato armadi, cassettiere, eliminato ciarpame imboscato in posti dimenticati, fatto da editor a un libro sul cinquantennale della scuola — siamo nate nello stesso anno, abbiamo la stessa età.
I miei colleghi di ruolo mi esortano a rassegnarmi — pardon, a ringraziare il cielo per la grazia di un posto di lavoro statale, se pur precario, e a ricavarmi una nicchia nella quale passare il mio tempo migliore, quello mattutino (7 ore e 12 minuti, dal lunedì al venerdì) coltivando i miei interessi tra un’incombenza tecnica e l’altra: uno stanzino, uno sgabuzzino, un’auletta in cui imboscarmi dribblando sporadiche richieste di fotocopie, stampe, cartoncini bristol, cavi USB, blocchi di modulistica da ritagliare con la gigantesca, pericolosissima tagliacarte industriale alla quale un mio ex compagno di classe sacrificò due falangi della mano destra, I-Mac da aggiornare: come scavare buche per poi riempirle, aggiorna e riavvia, riaggiorna, e poi vedi di non perdere il quaderno delle password di tutti i computer della scuola sennò son dolori, e di chiudere a chiave l’armadietto con gli I-Mac nuovi, ché ci son già stati vari furti, i tempi cambiano a ritmo forsennato, i programmi pure, chi si ferma è perduto — ma io mi sento, di nuovo, bloccata.
Il ricordo romantico dei laboratori che frequentavo da entusiasta allieva dell’ISA, popolati di camici, inchiostri e pasta lavamani, è ormai lontanissimo; cerco di rinverdirlo la mattina presto, appena arrivATA, entrando nei laboratori semiabbandonati e respirando a fondo l’odore ferroso delle vecchie macchine condannate all’oblio, riaprendo cassettiere inceppate colme di caratteri di piombo e cumuli di stampe realizzate negli anni settanta-ottanta, quando l’arte sconfinava nell’artigianato e non nella produzione in serie. Ci credevamo unici, realizzavamo pezzi unici: ma questa unicità, poi, che fine fa?
— Franca, ma che ci fai in tipografia? Quella porta deve restare sempre CHIUSA, a meno di non dover usare la tagliacarte: quante volte te l’ho detto?
La bidella senior — pardon, collaboratrice — occhio lungo della preside — padron, Dirigente Scolastico — urla i suoi strali dal fondo del corridoio. Le indirizzo un cenno di dubbia interpretazione e torno a rifugiarmi nel mio loculo, davanti al mio computer, accanto al mio thermos di tè; qui, con comodo — il comodo conquistato in anni di intoccabile servizio — mi raggiungerà un collega prossimo alla pensione che, notando la mia faccia spenta, scuoterà la testa ripetendomi per l’ennesima volta il suo monito:
Ah Frà, quante volte te l’ho detto? Statti tranquilla; attacca l’asino dove vuole il padrone, fai il tuo lavoro e basta, non prendere iniziative, nìn ci mett’ amore, sennò poi ci rimani male!
Annuisco e lo seguo nella sua ronda quotidiana, in cerca di cavi e interruttori da riparare. Sulla porta dell’Aula Magna c’è una targa in ottone, a memoria di un mio ex professore buonanima. Lui sì che lavorava sentendosi vivo, riuscendo a coinvolgerci, anche al punto da farsi odiare con le sue sgridate; ma ci metteva amore, si entusiasmava ai nostri progressi e d’improvviso ce lo ritrovavamo affianco, sorridente sotto i baffoni e curvo su fumiganti vasche di acidi calcografici, con una piuma in mano a calmierare le reazioni chimiche che avrebbero dato forma ai nostri capolavori. Io adesso, alla sua stessa età, in questo stesso (ex) laboratorio, mi sento già morta. Nin ci mett’ amore.
Un mese scarso di questa vita da ATA per il secondo anno consecutivo già mi pare un secolo. La tanto desiderata stabilità non è bella come pensavo, ma non posso lamentarmi: c’è chi sta peggio di me: anche io stessa sono stata peggio, molto peggio di così.
Ogni tanto, a tempo perso, spulcio il sito dell’USP — Ufficio Scolastico Provinciale — in attesa che esca il calendario delle convocazioni dei docenti supplenti. Chissà, magari chiamano anche me!
Seeee, figurati se. Lascia perdere, Fra’. Ormai io ATA tu Jane, io tè nel thermos e mai, mai e poi mai caffè in tazzina!
7 ore e 12 minuti dal lunedì al venerdì, senza amore, senza passione, tutti uguali, interminabili, tra autopersuasione e rassegnazione; sarà così per sempre, a meno di non lasciare questo lavoro, ma per fare cosa? Per riprendere la mia odissea occupazionale a cinquant’anni suonati?
Una mattina in cui il vuoto di senso della mia vita da ATA è ormai diventato voragine, mi telefona una delle mie migliori amiche-colleghe — come me laureata e abilitata, ma che dopo dieci anni di vita professionale divisa tra part time in azienda e supplenze a spezzoni a scuola, è in procinto entrare di ruolo: lei sì, che ha completato la sua raccolta punti!
Ciao cara! Oggi ci sono le convocazioni, lo sai?
Sì, stavo appunto guardando il sito dell’USP… rispondo, cercando freneticamente la homepage.
Chiamano anche quelli nella tua fascia, lo sai?
Noooo, che dici. Qui non vedo convocazioni per docenti di Inglese…
Per l’Inglese non ancora, ma per il Sostegno sì!
Eh ma per quello io mica sono specializzata… figurati se mi chiamano!
Guarda che stanno chiamando anche quelli non specializzati: controlla bene sul sito, Franca!
Link dopo link, finalmente scovo il file Excel giusto e nel lungo elenco di candidati papabili di supplenze leggo: la data di oggi, il liceo dove si svolgono le convocazioni, e il mio nome con l’orario scritto affianco: 13.00.
L’orologio del computer segna le 12.40.
Merda!
Ho un’emergenza, devo andare, poi vi spiego!, urlo, schizzando fuori dalla scuola sotto gli occhi perplessi degli altri ATA; inforco la bici e pedalo, pedalo, pedalo, pedalo forteeeeeee uffffff anfffff azzzzzzz arghhhhh, tagliando distanze per stradine sterrate sotto un sole beffardo verso un liceo dall’altra parte della cittàhhhhh, dove le convocazioni per le supplenze come insegnante di sostegnoooooohh si stanno per concludere, ti prego mamminamia aiutamiiiiihh!, aiutami tu ad arrivare in tempooooooohhh…
Alle 13.00 mi affaccio ansimando nell’aula magna del liceo come un cowboy sulla porta di un saloon: fermi tutti, questa è una rapina!, questa è una cretina che solo poco fa si è accorta che c’è il suo nome su quella lista, la lista dei convocati di oggi… anf, anf, anf.
Due placide impiegate dell’USP, impegnate a radunare giganteschi faldoni ripieni di nomine di candidati meno sciagurati di me, si girano e mi guardano da sopra gli occhiali — un gesto che nell’ambiente scolastico va molto, come scoprirò.
E lei chi è? Noi avremmo finito, per oggi.
Io sono. E sarebbero ancora le 13… e 01.
Si guardano, ti guardano.
Si sieda, riprenda fiato, ti invita la più anziana.
Questo è l’elenco delle sedi disponibili: ne scelga una, aggiunge la più giovane, porgendoti un plico fitto di sigle e numeri.
Benebenebenissimo, anzi male: su quei fogli non ci sono i nomi delle scuole ma i loro codici meccanografici. Anf. Aiuto.
E io come faccio a sapere che scuole sono, come faccio a scegliere?
Lei dove abita?
Qui, a Pescara. Perché?
Allora la scelta è facile: qui è rimasta solo questa scuola, la…
La mia ex scuola media. Quella che quarant’anni prima mi vide spettatrice di caffeine diversamente diluite, e che mi offre oggi una supplenza annuale a orario pieno, 18 ore. Sostegno.
Docente di Sostegno? Io? Proprio lì, poi…!
Mi viene da ridere, mi viene da piangere.
Firmi qui… favorisca un suo documento, così registriamo i suoi dati. Eccole la sua nomina. La porti domattina a scuola alle 8, per la presa di servizio.
Domani è un giorno speciale. Domani è anche il compleanno di mia madre.
Mamminamia.
Prof, ma tu quanti anni hai? — mi chiede la più curiosa delle allieve, soppesando con occhio clinico i miei capelli bicolori e la mia forma fisica.
Nooooooo!, esclama, dopo che le ho detto la verità. Sembri più giovane! Noi ti davamo trent’anni, massimo 35!
Basta invertire i numeri, tesoro. E poi non lo sapevi, che Fifty is the New Thirty? Che oggi a cinquant’anni è consigliabile, anzi; imperativo, dimostrarne venti di meno, o, perlomeno, essere gggggiovani dentro?
Riparto ancora una volta da capo, rivivendo i miei anni adolescenti insieme a un’allieva con la 104* e altre sedici sanguisughe scatenate; riparto da diciassette motivi per sorridere e, dopo un memorabile anno scolastico, mi ritrovo innamorata persa del sostegno didattico, al punto da decidere di farne la mia professione.
Ma… c’è un ma: mi manca il TFA.
Tfche?
Tirocinio Formativo Attivo, ovvero la specializzazione postlaurea per il sostegno didattico, Fra’!
Gli esami non finiscono mai, Eduardo docet.
Tocca rimettersi a studiare seriamente, molto seriamente, per superare, nell’ordine: le prove preselettive, gli scritti e gli orali banditi annualmente dalle università.
Studiare? Seeeeeh, vabbè. Ormai c’ho un’età, e dei vicini rumorosi con tre figli adolescenti, e poi d’estate, con questo caldo torrido, come faccio a concentrarmi? Non è cosa. Meglio dimenticare questo indimenticabile primo anno da docente e starmi calma, starmi ATA… così, lavoro soltanto un altro anno scolastico e poi sono già di ruolo: altro che decenni di precariato e graduatorie!
A settembre però, a pochi giorni dalla mia accettazione di una nuova supplenza da assistente tecnico, mi riconvocano come Docente di Sostegno, in un’altra scuola. Mollo il certo per l’incerto, altri 12 mesi di laboratori vuoti, tagliacarte tagliadita, stampanti non funzionanti, aggiornamenti software, fotocopie, chiavette USB, proiettori, interruttori, professori che ti guardano dall’alto in basso, professori che ti sfruttano, professori che ti ignorano, nin ci mett’ amore per… per? Una vita da docente precaria, chissà per quanto.
A marzo mi sono più o meno ambientata nella nuova scuola e con i nuovi allievi, e guardo al mio futuro professionale con un misto di speranza e disincanto. A marzo arriva la primavera, spuntano i fiori, nidificano gli uccellini e soprattutto escono i bandi del TFA Sostegno, indetti dalle università italiane, prese d’assalto da torme di docenti precari ansiosi di sistemarsi, scegliendo il sostegno come via più breve all’insegnamento. Mi iscrivo anch’io alle prove preselettive dell’università più vicina a me, in barba al fatto che sia quella con meno posti disponibili in tutta Italia. Pago le tasse richieste per sostenere i doppi esami di ammissione alla specializzazione: voglio provarli entrambi, il Sostegno alle medie e il Sostegno alle superiori, anzi il primo e secondo ciclo di istruzione, secondo i dettami della Nuova Scuola.
Aprile. Ricerco i testi su cui studiare.
Maggio. Scarico e stampo i test preselettivi dei TFA passati.
Giugno. Ma cosa sto facendo, cosa?
Luglio. Inizio a sudare su concetti ostici ma affascinanti, con l’obiettivo di superare le prove di selezione e, entro fine anno, essere ammessa al corso di specializzazione. Dopo tanti anni di giri a vuoto, colpi di fortuna e di sfortuna, anni passivi in balia degli eventi, ho un Obiettivo: è una sensazione strana, euforizzante.
Il problema è che sono molto arrugginita e ignorante in materia, come diceva mio padre: anzi, in più materie, tutte quelle elencate nel bando del TFA:
Didattica speciale
Progettazione didattica
Pedagogia speciale
Psicologia dello sviluppo
Modelli integrati di intervento per la disabilità intellettiva
Pedagogia e didattica speciale della disabilità
Legislazione primaria e secondaria per l’integrazione
Laboratorio Tecnologie
Laboratorio Interventi psico-educativi e didattici per alunni con disturbi relazionali
Codici comunicativi dell‘educazione linguistica
Didattica delle disabilità sensoriali
Orientamento e progetto di vita
Interventi psicoeducativi e didattici per disturbi comportamentali
Linguaggio e tecniche comunicative non verbali
Pedagogia della relazione d’aiuto
Didattica della matematica
Neuropsichiatra infantile
Mi porto i libri al mare, approfondisco, perdo il filo, lo ripiglio, lo riperdo, impreco, mi scoraggio, ricomincio, tra tomi che cricchiano di sabbia, sabbia ovunque, sigle ovunque, la scuola è cambiata ed è tutta un acronimo, e TFA è il minimo!, non ce la farò mai, mai, mai dire mai Ce la devo fare, ce la voglio fare, io voglio insegnare, io voglio fare Sostegno, chi l’avrebbe mai detto Franca, dopo tanti anni, quanti?
Il figlio del vicino ascolta Fedez a palla.
Il termostato di casa segna già 30 gradi alle dieci del mattino, i capelli mi si asciugano in pochi minuti, gli occhiali sul naso mi fanno sudare.
Ma chi me l’ha fatto fare, chi.
Avrei potuto starmene al mare, in piscina, in viaggio, in bici, con la certezza di entrare di ruolo nel prossimo anno scolastico, come ATA.
Mamminamia che fatica.
Accendo il ventilatore, mi metto i tappi antirumore.
Terza doccia, capelli tirati su, occhiali.
Hai voluto la bicicletta? E allora, pedala. Studia. Studia, cazzo. Allenati, toglitela ‘sta ruggine di dosso e vatti a prendere questa specializzazione, Fra’.
Accumulo risme di quiz, prosciugo due penne bic, compulso tre tomi e ennemila dispense intrecciando nuove sinapsi, oliando le vecchie (imparerò più avanti che ciò ha a che fare con gli “organizzatori anticipati”), ma alla fine comprendo i fondamentali e afferro gli accessori di quelle discipline a me prima ignote. Mi basterà per pedalare fino a tagliare il traguardo del TFA?
Un bel mattino di metà settembre parto all’alba per l’università di Teramo, dove si terranno le prove preselettive del TFA. Scatto foto al profilo del Gran Sasso all’orizzonte, pare guardarci stupito: che ci fa tutta quella gente laggiù, in quella sconfinata piana teramana, attorno a quelle palazzine in vetrocemento?
Siamo in tanti, tantissimi ad attendere infreddoliti, esasperati, speranzosi nonostante tutto: 400 e rotti per le selezioni del primo grado, 700 e passa per il secondo grado… alla fine, di ogni gruppo, ne resteranno soltanto 40.
40 è una cifra cruciale; la cifra della maturità. Over 40 è la maggior parte di noi, che nell’attesa ci conosciamo, scambiandoci guardinghe confidenze: chi più scafato con tante supplenze alle spalle, chi vede nel sostegno la via più breve — ancorché impegnativa — per sistemarsi come docente di ruolo dopo anni di precariato; chi già di ruolo, ma deciso a fare il percorso inverso, passando dal curricolare (disciplina) a sostegno, ritenuto per certi versi meno impegnativo; chi al primo tentativo in questo campo, proveniente da altri settori ma deciso a tentare la carta della scuola — per vocazione tardiva, per disperazione, per entrambe; chi per “fare anche questa esperienza: hai visto mai?”, chi perché “La Scuola è come le Poste: basta che ti metti in fila, e prima o poi arriva il tuo turno!”; chi perché di fare il musicista, l’architetto, l’avvocato, l’istruttore fitness, l’addetto stampa sfruttato e sottopagato, anche basta; chi perché la famiglia si sta allargando, e c’è bisogno di almeno uno stipendio sicuro; e via condividendo. Tanti capelli bianchi, tante pelate, rare donne incinte, aprite questi cancelli che siamo stanchi, fateci fare questi esami, e carichi di speranze e scazzi in egual misura invadiamo le solenni aule dove studenti di venti, trent’anni più giovani tentano di “dare forma al proprio futuro”, in attesa di poter modellare, una buona volta, anche il nostro.
A quasi 53 anni non ho una, ma tante canzoni preferite che mi fanno da colonna sonora mentre mi concentro sui quesiti a risposta multipla sui quali mi sono allenata per tutta l’estate.
A 53 anni appena compiuti apprendo di aver passato le prove preselettive e di essere tra i 140 candidati ammessi agli scritti. E scrivi adesso Franca, scrivi!
A 53 anni suonati supero anche gli scritti e vengo ammessa agli orali. Mi siedo e parlo davanti a una commissione talmente gentile che mi viene da piangere.
- Se passasse tutte e due le selezioni, tra medie e superiori cosa sceglierebbe?
- Lascerò decidere al destino.
A 53 anni e due mesi sono AMMESSA alla specializzazione per le scuole superiori, nonché IDONEA alle medie. Sono tra i magici 40!!!
A dicembre ho un nuovo orizzonte: arrivare a luglio e specializzarmi.
Eh ma è difficile.
Eh ma ad ogni modulo di 30 ore devo fare degli esami.
Eh ma nel mentre devo anche lavorare come docente di sostegno, alle medie.
Eh ma devo pure fare il tirocinio per il sostegno, alle superiori.
Eh ma così avrò tutti i fine settimana impegnati.
Eh ma alla fine dovrò anche scrivere e discutere una tesi.
La preside della scuola dove vengo accettata per il tirocinio mi saluta chiamandomi per nome, com’è possibile?
Guardo bene i suoi occhi sopra la mascherina e la riconosco: è F., l’amica di M., il ragazzo che tanto mi fece sognare a tredici anni. Quarant’anni dopo eccoci qua, una di fronte all’altra: mi accoglie con tutta l’affabilità di chi ha condiviso infanzia e adolescenza, se pur da lontano, assicurandomi che, se non mi avesse già conosciuta, non mi avrebbe accettata come tirocinante nella sua scuola: troppe esperienze negative e rotture di scatole, con chi mi ha preceduta.
Ringrazio il dio delle coincidenze e inizio di buona lena anche a tirocinare: 150 ore, più 25 ore tra tirocinio diretto e indiretto, in classe e online, in presenza e a distanza, il tutto da rendicontare con firme, timbri, registri presenze. Burocrazia onnipresente, opprimente; come se non bastassero gli esami infiniti — 21 in 6 mesi, in media un esame a settimana, oltre naturalmente al lavoro, al tirocinio e allo studio. Ma basta lagne, e Pedalare!, ché tra pochi giorni abbiamo da superare l’esame più ostico di tutto il corso: quello delle TIC (Tecnologie per l’Informatica e la Comunicazione).
Il Professore di TIC si affaccia alla porta della nostra stanza virtuale, il viso austero con la solita espressione indecifrabile di tanti incontri, lezioni e ricevimenti, durante i quali ha sistematicamente demolito ciò che avevamo a fatica costruito, esortandoci a ricominciare da capo.
Scavare una buca per poi riempirla.
A noi allievi della Generazione X, in massima parte adattivi digitali, la tecnologia ci è contro, ci è nemica; non ci capiamo niente, siamo negati, ma chi ce lo ha fatto fare a seguire questo corso? Chi immaginava che per specializzarsi in didattica della disabilità ci volesse anche un master in tecnologia applicata?
Per scoprire chi si nasconde dietro quella faccia da sfinge, cerco il suo profilo su LinkedIn: “psicotecnologo”, si definisce, colui che ci sta facendo impazzire con le sue email a raffica fitti di app, di tutorial, di lapidari commenti che non risparmiano nessuno dei componenti dei sei gruppi in cui ci siamo suddivisi in base alle sue indicazioni, ovvero: dal meno esperto in tecnologie (noi) ai più versati e avanzati.
Sei mesi di lezioni in cui lui distilla spiegazioni col contagocce, mentre noi annaspiamo tra tentativi falliti. Quando impareremo a fare un Learning Object con tutti i crismi, quando?? Più passa il tempo, più le cose invece di chiarirsi sembrano addirittura peggiorare, e le serate tra noi gruppettari per lavorarci su assumono un carattere confessionale e lagnoso che mal si concilia con l’urgenza di finire, e finire ormai a breve e bene, ciò che dobbiamo realizzare.
In un pomeriggio di particolare sconforto, deposto per un attimo il portatile che ormai mi porto pure a letto, rimirando la mia libreria mi cade l’occhio sul LIBRO: quel libro che quasi trent’anni prima un caro amico mi aveva consigliato: “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”.
Parlava, anche, di tecnologia e della presunta ostilità/osticità della medesima.
Parlava, anche, di qualità del lavoro.
Parlava, anche, di pazienza e perseveranza.
Parlava, anche, di follia.
Parlava anche a noi, di noi.
Dal momento in cui decido di inserire una frase del LIBRO come epigrafe del nostro lavoro, sento che qualcosa sta cambiando: certo, abbiamo ancora tanto da fare e tanti errori a cui rimediare e poco tempo a disposizione, ma davanti a noi adesso, ben in vista nel frontespizio del nostro LO, c’è la lanterna che Robert Maynard Pirsig tiene accesa, sospesa, a indicarci la strada verso la Qualità.
Pazienza, perseveranza, follia.
Fa molto caldo, in quelle sere di maggio in cui ripassiamo al setaccio infinite volte link, rimandi, immagini, testi, titoli, font, ammennicoli indispensabili a dare forma ai nostri contenuti.
Alle 21.15, l’appuntamento su Meet: e da lì avanti tutti insieme fino a mezzanotte e oltre, invece di uscire, godersela questa estate precoce, ballare, fare l’amore, socializzare dal vivo invece che sugli schermi.
Le nostre facce trasudano stanchezza, scoraggiamento, voglia di mandare a quel paese il Professore, il Learning Object e il sogno di specializzarci in Sostegno Didattico. Abbiamo noi, bisogno di sostegno! Per scaramanzia ci siamo chiamati proprio così: “Sostegno al Sostegno”, il naming ideale per un gruppo di scarsi: di chi mai prima di allora aveva lavorato su una presentazione Google — che poi, “presentazione” lo era per modo di dire, dal momento che sarebbe diventata Lezione. Sostegno al Sostegno: SOS, Aiuto. Ma nessuna divinità sarebbe calata dal cielo a salvarci; dobbiamo salvarci da soli, riprenderci da soli, studiare da soli, uscirne fuori da soli — soli, ma in gruppo. Uno per tutti, tutti per uno.
Il Prof, intanto, troneggia nei ricevimenti con l’espressione corrucciata di una divinità primitiva assetata di sacrifici umani. Piatire, lamentarsi, fare i simpatici, niente riesce a smuoverlo; il classico osso duro. Esigente con tutti, specie con noi tecnofobi imbranati.
Aprire spesso a caso il libro di Pirsig mi incoraggia a non mollare, e sfruttare ogni momento libero per fare continue, piccole grandi migliorie al nostro LO — la mattina a scuola, quando il “mio” studente si addormenta dopo le crisi epilettiche; durante le ore di supplenza in altre classi, usando i ragazzi come cavie dei miei esperimenti con le app didattiche; e piano piano anche gli altri gruppettari si mettono in moto, ciascuno a suo modo e a suo ritmo, per venire fuori dall’incubo del Learning Object.
Quello di cui non ci rendiamo ancora conto è che la Perseveranza, la Follia, la Pazienza e la Disperazione di quelle sere, di quelle ore infinite di lavoro comune, ci stanno portando pian piano verso la Qualità: una caratteristica che prima nel nostro lavoro non c’era.
Adesso invece l’intravvediamo, fare capolino qua e là nelle slides, nei testi, nella cura certosina con cui modifichiamo link, inseriamo mappe e frecce di livello, nell’ostinazione e nell’ossessione con cui, mai paghi dei risultati, ricominciamo ogni volta da capo a proiettare la nostra lezione. L’ingrandimento a tutto schermo in modalità Presentazione è la prova del nove: fa risaltare errori elementari, marchiani, invisibili a dimensione di pagina. Non siamo stati abbastanza attenti a lezione. Non abbiamo fatto i compiti. Non siamo (stati) abbastanza bravi, ambiziosi, volenterosi, noi scarsi tecnofobi di sostegno soli, reietti, schifati dagli altri gruppi più abili e abbandonati dal Prof che ormai ha esaurito pazienza e ricevimenti; ma abbiamo ancora noi stessi, la forza del nostro gruppo a trainarci; e lui, Robert Pirsig. Robert, lo stesso nome dell’amico che tanti anni prima me lo aveva consigliato.
A proposito di amici: quanti inviti abbiamo dovuto declinare, quante prese in giro per la nostra ossessione del LO, ma figurati se al corso stanno a guardare il capello, il pelo nell’uovo, tanto avete pagato, tanto vi promuovono lo stesso, dai che andrà bene, uh come siete esagerati, non ci si può ridurre così per una specializzazione!
Oh sì che si può. Guardateci, guardate le nostre occhiaie, i nostri visi stravolti e stanchi, i nostri capelli schiacciati e spettinati; ascoltate le nostre risate isteriche notturne, i nostri figli che piangono, i nostri compagni che reclamano: ma dove sei, ancora lì davanti a computer con quegli altri sei pazzi? Pazzi, siete pazzi, ormai siete fuori, fuori come balconi, lontani da tutto, non esiste più nient’altro per voi, a parte il LO.
Pazzi, noi? Certamente, e come tutti i pazzi ossessionati da un unico obiettivo: portare a termine il nostro lavoro rendendolo a prova di bomba, di link, di sguardo assassino del professore e commenti impietosi degli altri gruppettari più esperti.
Pazzi sì, a voler fare bene, anzi meglio; a inseguire la Qualità si diventa pazzi, come Fedro, l’alter ego di Pirsig, finito addirittura in manicomio.
Non ci sarebbe toccato l’elettroshock, ma lo choc di presentare davanti a tutti il LO come se fosse una lezione, quello sì.
Il Prof vuole che a farlo sia una persona sola. Chi si offre volontario a nome di tutto il gruppo?
Guardati allo specchio e rispondi, Franca.
La fatidica giornata inizia bene, preceduta da una notte di sonno sodo e continuato come non mi capita da mesi. Alle 9 ci ritroviamo di nuovo e per l’ultima volta tutti e 37 lì, davanti alla Sfinge che ci appare sullo schermo con il solito cipiglio, stavolta addolcito da una strana curiosità.
Come state?
…
Oggi è il nostro ultimo giorno… il primo giorno in cui saremo insieme da mattina a sera!
!!!
Non ci è mai capitato prima, o sbaglio?
…
La Sfinge è loquace, palesemente incuriosita dal nostro silenzio — Oggi pare addirittura gioviale, scrive qualcuno sulla chat segreta di gruppo. Gioviale? Sì, come Nerone prima dell’incendio di Roma!, risponde un altro. Adesso vedete come si diverte, poverannoi, prosegue una terza, la prima ad essere inchiodata dai commenti aspri del Professore. Qualcun altro azzarda un commento nella chat visibile ai docenti:
Professore, siamo talmente in ansia che non riusciamo a parlare.
Risata omerica sua, facce costernate nostre.
Nooo. Siete pronti, siete pronti. Io LO SO, che siete pronti! Li ho seguiti, i vostri progressi.
Ecco, se c’è qualcosa di buono in quella tecnologia che tanto ci ha fatti penare, è che la Sfinge ha tracciato tutti i nostri accessi sul LO — nomi, orari, tempi, modifiche: chi ha fatto cosa, e per quanto tempo, e chi NON ha fatto cosa; una volta tanto, chissà, quella orwelliana capacità avrebbe giocato a nostro favore, invece di venirci contro.
Allora, stamattina spiego, oggi pomeriggio facciamo l’esame — prosegue la Sfinge.
Ti pareva che non ci fosse la fregatura! Invece di farci togliere subito il pensiero… un pensiero molesto per noi tutti e trentasette, ma in particolare per sei di noi, che si sono accollati l’onere di presentare i lavori a nome dei rispettivi gruppi.
Nemesi, questa è la tua nemesi Franca: sostenere un esame di tecnologia davanti a tutti, e farlo anche a nome di altri, tu che la tecnologia l’hai sempre sofferta, e tanto.
6 giugno, il giorno della Sfinge: così lo avevate soprannominato, e alla fine quel giorno tanto temuto è arrivato. E come la Sfinge esigeva la risoluzione di un indovinello per risparmiare la vita dei malcapitati che le si paravano dinanzi, così la nostra Sfinge psicotecnologa esige adesso lo svolgimento di una LEZIONE — cosa? — sì sì, Lezione, mica Presentazione: Lezione interessante, dotta, accattivante, a prova di bomba e di link, servendosi del LO da noi realizzato.
6 giugno, il giorno più lungo per noi e soprattutto per me che, dato che il nostro gruppo era stato estratto per ultimo, presenterò per ultima il lavoro, pardon la lezione, insomma la presentazione Google in guisa di lezione: virtuale, ma sempre lezione, sempre esame, esami a 53 anni e mezzo, gli esami che non finiscono mai, mai, mai.
Se me lo avessero detto anche solo un anno fa, non ci avrei creduto; ma “la vita ha tanta fantasia”, come mi diceva sempre una mia amica, solleticando il mio scetticismo.
Fantasia? Follia, piuttosto. Ce ne vuole in abbondanza, per passare ore e ore su una “cosa”, un coso, un LO da far proprio, padroneggiare, conquistare, piegare ai tuoi voleri: vuoi fottermi? Ti fotto io, invece: vedrai, se non imparo a farti funzionare!
A forza di errori e tutorial, ci eravamo riusciti; e il risultato adesso è lì, davanti ai miei occhi alleggeriti di qualche diottria, smerlati di kajal scuro — perché sì, tocca anche presentarsi bene: mica si può sostenere un esame senza trucco, in canotta e pantaloncini, sciamannati come quando ci vedevamo dopo cena a tivù spenta per fare notte fonda ad accanirci sul LO e sulle sue tecnologie. La forma è sostanza e viceversa, se c’è una cosa che il LO ci ha insegnato è questa: niente va lasciato al caso e a casaccio, tutto deve tornare, funzionare, ben figurare, noi compresi.
E quindi — sopra: blusa nuova con fantasia anni settanta, capelli a posto, un filo di trucco, anelli, bracciali; sotto, pantaloni larghi e morbidi, infradito. Sopra si soffre, ma almeno sotto si sta comodi. Sottosopra, arrivare a questo esame mi ha messa sottosopra, capovolgendo ogni mia aspettativa e speranza (speriamo di essere almeno i primi!, ed eravamo invece ultimi), ma allo stesso tempo sorprendendomi. Sorpresa, sono sorpresa di ritrovarmi lì, di provare la stessa stramba rassegnazione di quando, imbottita di tranquillanti, ero risalita dopo anni su un aereo. Anche adesso sono tranquilla: so di aver dato il massimo, di aver fatto tutto quello che potevo, succeda quel che succeda. Se la Sfinge mi mangerà, pazienza; ma dovrà masticare parecchio, tanto mi sono indurita.
Sono sorpresa di me stessa, di essermi messa spontaneamente a capo di quell’armata brancaleona di tecnofobi; di avere, per una volta, smesso i comodi e anonimi panni di gregaria zavorra, per vestire quelli più eleganti e scomodi di leader e traino; risultato: mi sento viva come non mi capitava da tanto. Sorpresa di aver lavorato in gruppo, io irriducibile figlia unica, non abituata a condividere, a mediare, a negoziare, ma a fare sempre tutto a modo mio.
Bene Professoressa, può concludere la sua lezione.
(Professoressa?)
Sono passate — volate — 8 ore dal primo collegamento, più un’ora di pausa pranzo. È pomeriggio inoltrato, la Sfinge mi parla ma non la vedo; sento le sue parole dietro lo schermo che mi protegge e allo stesso tempo mi espone agli sguardi altrui, degli altri 36 (più lui, 37) chiamati a giudicarci, a giudicarmi. 37 paia d’occhi su di me, 37 paia di orecchie ad ascoltarmi. Nella mia vita ho fatto tante presentazioni, ma erano sempre di libri, miei o altrui: giocavo nel mio campo, sul terreno solido della letteratura, non sulle sabbie mobili della tecnologia!
Pensarsi al plurale, che bella novità. Ce lo dirà poi, la Sfinge: tra tutti, siete quelli che avete fatto più gruppo, vi siete supportati e siete cresciuti. Insieme.
Fare gruppo. Superare i propri limiti. Condividere la conoscenza. In realtà sono tante, le cose belle di queste TIC e di questo TFA.
Per mezz’ora ho parlato di un argomento a cui tengo: l’influsso della pubblicità nelle nostre vite, specie in quella delle donne, scegliendo gli spot per me più subdoli e innocui, quelli di cui si sorride, quelli di cui non ci si accorge, che paiono scivolarci addosso e invece ci restano incollati addosso, ai comportamenti, alle idee, al modo di condurci per le strade del mondo.
Mi è parso così di ridare la parola a chi è scomparso: a Robert, a colui che quasi trent’anni orsono diede a me facoltà di parola, rispondendomi Just Do It (sì, come il claim della Nike) quando gli parlai del mio desiderio di scrivere. Trent’anni dopo gli rendo omaggio, ma rendo omaggio anche al mio coraggio e alla mia testardaggine, alla mia storia familiare — due genitori con la quinta elementare, che porto avvolti all’anulare destro sotto forma di anelli matrimoniali, che ho baciato prima di iniziare a parlare; lo sento che sono con me, che fanno il tifo per me, e succeda quel che succeda io questa lezione, questo Chautauqua alla Pirsig lo porterò avanti fino alla fine, fino all’ultimo link.
In realtà la fine non è una vera fine, perché non ho esaurito tutti gli ambiti che abbiamo approfondito, ma ho parlato di quello a cui tengo di più. E questa passione è passata attraverso lo schermo, ha toccato gli allievi/colleghi, e la Sfinge — soprattutto lui, che mi ringrazia degli spunti di riflessione.
Ha gli occhi lucidi e un sorriso da un orecchio all’altro il Professore quando si congratula con noi, e io sono felicefelicefelice, come non mi sentivo da tanto. Arrivano via chat i complimenti, insieme al sollievo e alla gioia di avercela fatta. I miei colleghi, stravolti quasi quanto me, si congratuleranno fino a notte fonda e al mattino dopo. Gioia e sollievo.
Rimettersi alla prova a 53 anni, che bella novità.
Cosa è scattato, per farmi decidere di rimettermi in gioco?
La voglia di qualcosa di meglio, di buono per me stessa.
La voglia di sfidarmi.
La voglia di non essere seconda a nessuno.
La voglia di prendere iniziative in autonomia, non dietro consiglio altrui.
La voglia di impiegare tempo di qualità per il mio futuro professionale con una prospettiva di stabilità assicurata, se pur a lungo termine; non più tempo vano speso dietro a progettini e contrattini che non portano a nulla.
L’aver capito che questo lavoro mi piace, che voglio farlo e farlo al meglio.
La voglia di rendere i miei orgogliosi di me, di poter dire loro Ce l’ho fatta. Papà contadino e poliziotto penitenziario, mamma casalinga e sarta, due quinte elementari e tanti sacrifici per vedermi laureata: questo TFA è anche per voi. Non siete più qui fisicamente, ma io vi sento lo stesso.
A maggio mi sono iscritta, a luglio ho iniziato a studiare, a settembre ho sostenuto il primo dei sei esami di ammissione, a dicembre ho superato il primo esame del mio corso di studi in Sostegno Didattico nelle Scuole secondarie di secondo grado… e adesso, è di nuovo luglio: oltre un anno di impegno intenso e continuativo, fitto di viaggi e di incontri, dal vivo e online; di esami infiniti, infiniti moduli e intoppi burocratici, notti insonni e tecnologia, che ha reso possibile tutto questo.
Online mi sono iscritta, online ho frequentato e sostenuto esami, online ho discusso la tesi. Online ho imparato a usare… l’online; sbagliando, sbuffando, imprecando. Online ho conosciuto coetanei e colleghi, con loro ho lavorato e interagito e continuo a farlo; online ho costruito un LO
LO — Learning Object
che definizione assurda, che lavoro immane
LO che ancora oggi mi perseguita, ma in positivo
LO che abbiamo fatto insieme, LO, che ho fatto più che altro io, o almeno sono quella che ci ha lavorato di più, che più se LO è preso a cuore, e chi l’avrebbe detto che la tecnologia ha un cuore, e che può far bene al cuore
“È l’uso che ne fai!”,
l’eterno refrain di chi la difende. Io semplicemente l’ho usata, come? Come non avevo fatto mai.
E ADESSO?
Adesso non mi resta che continuare, sapendo che l’unica cosa che può fermarmi è un mostro che non è più la Sfinge… come dice Pirsig: “La vera motocicletta a cui state lavorando è una moto che si chiama ‘voi stessi’.”
Pazienza, perseveranza, follia in egual misura. A volte ha prevalso una, a volte l’altra.
Ho una buona sensazione, sento good vibes; come dice Pirsig (di nuovo!): “Andrà tutto bene. Queste cose si sentono.”
Ripetendomi queste due frasi, mi collego con l’Università per l’ultima volta e discuto la mia tesi di specializzazione sul valore inclusivo della scrittura autobiografica. Parlo davanti a tre professori attenti, ma anche impazienti di mandarmi via; avanti il prossimo specializzando, altro giro altra corsa altro TFA: è già partito il nuovo ciclo, nuovi aspiranti prenderanno il nostro posto in questa catena di montaggio, in questa corsa al titolo.
Sarà un massacro, ma vi divertirete anche, vorrei dire loro; e sarà sorprendente, sorprendersi di se stessi. Riscoprirete lo studio come dovere e come piacere. Studiare, farsi il mazzo per fare qualcosa di grande, di buono e utile per sé.
A fine luglio torno in facoltà per il conferimento del Diploma di Specializzazione in Sostegno Didattico (con il massimo dei voti. Secchiona.)
Celo.
Posso godermi il resto dell’estate e pensare più serenamente al prossimo anno scolastico. Chissà quale supplenza, quale scuola, quali allievi mi capiteranno, adesso che ho il TFA? Ho fatto tutto il possibile, adesso non mi resta che attendere che escano le convocazioni, e le relative nomine.
Poi, un bel giorno, appare nella mia casella di posta elettronica una mail firmata MIUR.
Il sindacalista occhialuto sorride sornione quando torno da lui per aggiornare la mia raccolta punti, che mi frutterà un posto da docente di ruolo a 53 anni suonati: la stessa età in cui mio padre andò in pensione.
Mi impallina subito con uno stentoreo Te l’avevo detto, seguito a ruota da Mi devi un caffè! (senza sputi, please); poi sprofonda di nuovo nelle oscillazioni dell’algoritmo del portale MIUR e negli incessanti feed degli USR (Uffici Scolastici Regionali) e USP (Uffici Scolastici Provinciali), aggiornati H24: d’altra parte, è un mondo in continua evoluzione, oggi, la Scuola.
*** Epilogo ***
Appurato che non sono su Scherzi a Parte e che la mia nomina a tempo indeterminato come docente di sostegno nella scuola secondaria superiore è reale, mi appresto con euforica cautela a diffondere la lieta novella della mia svolta professionale — ma che dico, esistenziale!
I primi a cui mi sento in dovere di dare la notizia sono: l’ex prof-assistente che mi diede la dritta per diventare ATA — in fondo è anche merito suo se in qualche modo ho messo piede nella Scuola, sarà contento di sapere che sono entrata di ruolo; e la mia ex collega pubblicitaria passata all’insegnamento, che mi avvisò in extremis delle convocazioni per il sostegno.
Bene, ti sei assicurata la pagnotta — commenta il primo, con tono da pensionato disincantato.
Complimenti! Adesso però vedi di mandare un tuo curriculum al Dirigente scolastico: devi presentarti, farti conoscere! — esorta la seconda, forte del suo anno di prova appena superato.
E già, perché anche se si è assunti a tempo indeterminato bisogna anche fare l’anno di prova: solo dopo, il posto di lavoro da docente diventerà blindato a tutti gli effetti.
Gli esami non finiscono mai.
E io che pensavo di poter finalmente dire addio alle candidature e a LinkedIN… basta “operaia della parola” a caccia di lavoro. Setacciando il sito della mia futura scuola, scopro invece che docenti e dirigenti scolastici hanno molta cura dei propri profili, vantando biblici curriculum in formato europeo, costellati di corsi di formazione ed incarichi.
Ripesco il mio CV, rimasto fermo al 2017, epoca di mancati rinnovi contrattuali e immensi scoramenti.
Un file di dieci pagine, oltre trenta lavori nella sezione Esperienze in cui rivivo, riga dopo riga, la mia “odissea occupazionale”: vent’anni con l’occhio fisso ai giornali e agli annunci di lavoro, il ricominciare ogni volta da capo, la ricerca di aziende e agenzie, il proporsi al meglio con curriculum mirati, i colloqui in competizione con candidati più giovani, i “le faremo sapere”, le attese estenuate e le telefonate entusiaste, i contratti al livello più basso e al minimo sindacale, i periodi di prova, i chilometri percorsi in auto senza rimborso spese, e così di anno in anno fino ad averne cinquanta, cinquantuno, cinquantadue, il miraggio di un lavoro stabile che ad ogni compleanno si allontana, mentre accanto a te scorrono capi più giovani, colleghi coetanei quadri e dirigenti che ti guardano con scetticismo e compassione… loro sì, che hanno fatto carriera.
Vorrei dimenticarli, ma non ci riesco. In fondo mi sento ancora precaria, se pur statale, con un anno di prova da superare — in una nuova scuola, con nuovi colleghi, nuovi ragazzi, nuovo Dirigente Scolastico: sarà l’ennesimo rimettersi in gioco a cinquant’anni, con entusiasmo ed energia da giovani — fifty is the new thirty!
Ma una piccola, grande, enorme differenza c’è: da quest’anno, giocherò di ruolo.